«Depistaggi su Ustica» Ministeri condannati a risarcire 100 milioni
PALERMO — Il muro di gomma dopo trent’anni non ha retto in sede civile e un giudice ieri a Palermo ha condannato lo Stato a risarcire con un maxi assegno da 100 milioni di euro i parenti delle 81 vittime della strage di Ustica «per avere ostacolato l’accertamento della verità ».
La cifra è astronomica rispetto ai 980 mila euro riconosciuti qualche anno fa ai familiari di 15 vittime, ma la vera mazzata istituzionale in particolare riguarda il ministero della Difesa chiamato, nella ripartizione di quelle somme, a scucire una quota di 500 mila euro a ogni gruppo familiare «proprio per l’azione di depistaggio compiuta», come ripete trionfante uno dei sette avvocati schierati a difesa, Alfredo Galasso, ex componente del Consiglio superiore della magistratura.
Non ci sono precedenti nella giurisprudenza italiana per questa sentenza che porta il bollo della terza sezione civile retta da Paola Protopisani, figlia di un giurisperito di fama, decisa a configurare nel dispositivo «un diritto alla verità » violato da chi, operando nei gangli vitali della Difesa e dell’altro dicastero condannato, il ministero dei Trasporti, prima non avrebbe garantito la sicurezza del DC9 Itavia in volo quel drammatico 27 giugno 1980 da Bologna a Palermo e poi avrebbe occultato notizie e documenti attraverso depistaggi e distruzione di atti.
Una sentenza innovativa, tutta da studiare, ma destinata a grandi polemiche visto che Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, parla già di una vistosa contraddizione con le direttrici della Cassazione. Epilogo giudiziario ben diverso dal procedimento culminato a Roma con l’assoluzione di due generali dell’Aeronautica accusati dai magistrati di aver compiuto depistaggi. Adesso è soddisfatta dalla svolta palermitana Daria Bonfietti, storica presidente dell’associazione dei familiari di quegli 81 martiri ignari di morire immolati in quello che apparve subito uno scenario di guerra. Una pagina oscura con diversi aerei militari statunitensi e francesi a caccia di un velivolo libico.
Fra radar oscurati, silenzi imbarazzati e discussi segreti di Stato si arrivò nel 2008 a una ricostruzione oggi contestata da Giovanardi, allora ipotizzata dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga convinto che ad abbattere l’aereo di linea fosse stato un missile esploso da un caccia francese. La Procura di Roma aprì un fascicolo indagando sulla possibilità che il DC9 Itavia si trovasse in volo troppo vicino al vero obiettivo, appunto un aereo con a bordo il leader libico Muammar Gheddafi, a sua volta riuscito a scansare il pericolo perché informato dal Sismi, il servizio segreto militare italiano. È la pista che ha portato l’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano a inoltrare l’anno scorso quattro rogatorie internazionali rimaste lettera morta.
La sentenza di ieri riaccende i riflettori sulla vicenda e vogliono subito rilanciare alcuni familiari come Anna Molteni, figlia di un ingegnere che lasciò a Palermo moglie e tre figli: «Dopo l’epoca delle bugie di Stato e delle vergognose prescrizioni è il momento di aprire gli archivi, perché non basteranno certo i soldi a rendere giustizia ai nostri cari». Di qui l’invito rivolto a chi oggi governa il Paese, anche allo stesso ministro della Difesa, perché «si colga la fase della caduta del regime di Gheddafi operando per l’acquisizione degli archivi libici», come invocano Galasso e gli altri difensori, da Daniele Osnato a Massimiliano Pace, da Giuseppe Incandela e Gianfranco Paris a Fabrizio e Vanessa Fallica.
Da una parte, si impone il risarcimento a favore di familiari ai quali la sentenza, come dicono gli avvocati, «rende giustizia per la ultratrentennale tortura subita ogni giorno della loro vita anche a causa dei numerosi e comprovati depistaggi di alcuni soggetti deviati dello Stato». Dall’altra, si auspica una azione «opportuna e indefettibile» nei confronti di Francia e Stati Uniti «affinché sia finalmente ammessa la responsabilità per il gravissimo attentato».
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