«Basta mortalità  infantile È una missione possibile»

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FIRENZE — La missione è di quelle impossibili. E infatti l’obiettivo è troppo ambizioso per essere centrato: abbattere la mortalità  infantile nel mondo di due terzi entro il 2015. «Ma dobbiamo provarci, perché possiamo», spiega con semplicità  il direttore generale dell’Unicef internazionale, l’ambasciatore Anthony Lake, che oggi sarà  a Roma per lanciare in Italia la campagna «Vogliamo zero», inteso come zero morti inutili. L’obiettivo è salvare ogni anno oltre otto milioni di bambini da una fine certa entro i cinque anni di vita per cause facilmente evitabili con un vaccino, un po’ di cloro, un po’ di cibo in più. E’ una parte dell’operazione iniziata nel 1990 che va sotto il nome di Millennium Development Goal 4: nei prossimi quattro anni anche il comitato italiano dell’Unicef, guidato da Roberto Salvan sarà  impegnato a pieno ritmo su questo progetto. L’anno scorso ha raccolto 60 milioni di euro.

Ambasciatore Lake, incontrerà  il presidente della Repubblica Napolitano e il ministro degli Esteri Frattini. Che cosa si aspetta dall’Italia come impegno per la campagna «Vogliamo zero»?
«L’Italia è da sempre molto coinvolta nell’attività  dell’Unicef. Il vostro comitato nazionale è il sesto più grande finanziatore. Del resto, proprio oggi viene presentato lo studio sulla mortalità  infantile in Italia dall’Unità  ad oggi: centocinquant’anni fa ogni dieci nati, quattro morivano entro i cinque anni. Oggi il tasso di mortalità  è molto vicino allo zero. Questo ci fa sperare che i progressi possano presto raggiungere anche i Paesi meno sviluppati che oggi hanno tassi di mortalità  infantile molto alti».

I governi ultimamente, anche prima della crisi finanziaria di questi mesi, sono poco inclini a dedicare risorse ai problemi lontani, ai proclami di impegno troppo spesso non seguono le azioni, né i finanziamenti. Il fondo anti-Aids istituito al G8, tanto per citare un progetto, langue tra le polemiche senza stanziamenti.
«Non vengo a battere cassa. Vengo a raccontare una storia, a porre un tema, a chiedervi di non ripiegarvi su voi stessi ma di ricordarvi che c’è gente che soffre e muore ancora inutilmente. In vent’anni siamo riusciti a ridurre il numero di bambini che muoiono per cause facilmente evitabili da 12 milioni all’anno a sette milioni e mezzo».

Ventuno mila bambini al giorno muoiono nel mondo, che è ancora tantissimo.
«Certo, è un’oscenità . E c’è ancora moltissimo da fare. Comunque è come se in vent’anni avessimo salvato l’intera popolazione di Roma. Questi bambini che sono sopravvissuti grazie ad un vaccino, al cloro nell’acqua, ad un’alimentazione più giusta oggi sono persone che lavorano, che hanno un futuro davanti, che possono far andare avanti il mondo».

Africa subsahariana, Sudest Asiatico: sono le aree del pianeta dove sopravvivere ai primi anni di vita è poco più di una scommessa. Paesi lontani, problemi diversi. Nei fatti come si salvano questi bambini?
«Salvare i bambini più lontani e irraggiungibili è la chiave del successo di questo progetto. Recentemente è stato presentato un modello economico matematico che dimostra, contro quello che si potrebbe tradizionalmente pensare, che anche se aiutare bambini in necessità  maggiore costa di più, il risultato e dunque il ricavato finale per le economie e le società  è maggiore del costo. E’ conveniente usare il principio di equità  quando si ha a che fare con questi problemi, perché solo se lo sviluppo è equo poi è anche sostenibile».

Insomma, è conveniente andare ad aiutare bambini nel deserto o nella foresta, non solo nelle città  più grandi.
«Certo. Ed aiutare le bambine, le donne è un altro passaggio decisivo per combattere la mortalità  infantile. Una bambina che viene salvata ed educata moltiplica i benefici della nostra azione: impara di più, si sposa più tardi, fa i figli più tardi, sa gestire meglio la salute sua e degli altri».

L’ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner non è così ottimista sulla cooperazione e sugli aiuti ai poveri del mondo. Ha detto ieri sul Corriere: «La gente è stufa di pagare per gli altri. Un bimbo pieno di mosche non fa più pietà  ma dà  fastidio».
«Concordo con Kouchner, che tra l’altro ammiro moltissimo: capisco che mostrare la sofferenza può spingere chi guarda a mettere una distanza con coloro che soffrono. A pensare, “non mi riguarda”. Ma la nostra impostazione è diversa. I bambini e le mamme di cui parliamo noi non hanno bisogno di carità  ma di sostegno. Non sono semplicemente persone che stanno morendo di fame. Sono persone coraggiose, che reagiscono per quanto nelle loro possibilità , sono persone che fanno anche 10 chilometri al giorno per prendere l’acqua e hanno diritto a che quell’acqua sia pulita. Quanto agli effetti della crisi finanziaria non ha influito sui contributi di molti governi, specialmente quelli del Nord Europa».

A proposito di Europa, nell’ultimo rapporto sulla mortalità  infantile delle Nazioni Unite, ci sono sette Paesi occidentali in cui la stima è sopra il 10 per cento, tra questi la Romania, l’Albania, la Macedonia e l’Ucraina e la Russia.
«Purtroppo è vero. La mortalità  è concentrata in piccoli gruppi etnici come i Rom, o presso i bimbi di strada o portatori di handicap. Per questo il criterio di equità  è una questione di primaria importanza anche in Paesi sviluppati come l’Europa o gli Stati Uniti».

L’Unicef è impegnata a pieno ritmo in Somalia dove la situazione resta disastrosa.
«La Somalia non è un disastro, è una catastrofe, soprattutto nel Centrosud del Paese. Noi dell’Unicef siamo gli unici a lavorare lì in quanto non politicamente coinvolti».

Sono stati fatti molti errori in questi anni.
«Ma noi siamo rimasti, abbiamo fatto e facciamo tutto quello che abbiamo potuto. Non ce ne andremo, anche se la situazione sta peggiorando ancora».


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