L’ultima sconfitta di Tremonti con la scelta interna a palazzo Koch vince l’asse Napolitano-Draghi

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FABRIZIO Saccomanni non era il candidato di Tremonti alla guida della Banca d’Italia.
Solo qualche mese fa, prima dell’estate, prima che deflagrassero il “caso Milanese”, cioè del suo consigliere politico, insieme allo scandalo di quell’affitto in Via Campo Marzio pagato in contanti, il ministro dell’Economia aveva in mente un altro disegno. Per quello aveva lavorato in una partita delicata e silenziosa, basata tutta sui rapporti di forza tra istituzioni diverse. Pensava di portare a Palazzo Koch il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, già  Ragioniere generale dello Stato, suo strettissimo collaboratore, uomo decisivo nella costruzione di quella rete di relazioni internazionali che aveva fortissimamente ricercato quando il suo potere sembrava destinato solo ad aumentare. Uomo, inoltre, di raccordo tra Via Venti Settembre e l’influente e inquieto sistema bancario italiano. Ma pure uomo esterno alla Banca che, proprio con il governatore Mario Draghi, affiancato dall’amico di sempre, Fabrizio Saccomanni, aveva recuperato il prestigio e l’autorevolezza macchiati dall’affaire Fazio-Fioroni.
Nel suo disegno, Tremonti sapeva che avrebbe trovato due opposizioni, felpate ma nette. Quella dalla struttura di Via Nazionale, alla quale prima o poi (come è effettivamente accaduto) avrebbe dato voce lo stesso governatore, prossimo presidente della Bce, che chiedeva il ritorno alla “normalità ” e dunque il ripristino della tradizionale successione interna, avviata dal 1975 con Paolo Baffi e interrotta proprio con l’arrivo di Draghi. E poi quella del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che nella complessa procedura per la nomina del governatore della Banca d’Italia non ha affatto una funzione notarile, e che nelle continuità  con la rigorosa linea di Draghi ha sempre visto la chiave per difendere l’autonomia dell’istituto. L’opzione Grilli, al di là  delle riconosciute qualità  della persona, nei fatti avrebbe rappresentato uno strappo. E Draghi, in qualche modo, lo ha detto nelle sue ultime Considerazioni finali: «La Banca d’Italia è stata una fucina di quadri al servizio della nazione, dell’Europa. Merito e indipendenza: sono queste le condizioni essenziali per la credibilità  delle sue analisi, per l’efficacia della sua azione. Sono valori da preservare, se si vuole che il Paese continui a giovarsi di una voce autorevole e senza interessi di parte».
Il disegno di Tremonti era davvero egemonico e forse proprio qui stava anche la sua impraticabilità . Perché prima della discesa nella polvere, che lo obbliga ora a rincorrere con affanno evidente le indicazioni della Banca centrale europea (proprio quella che da novembre andrà  a presiedere Draghi), il ministro dell’Economia aveva conquistato caselle su caselle. Non solo piazzando ai vertici delle aziende partecipate o totalmente controllate dal Tesoro (Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste) manager di suo gradimento (e del sottosegretario di Palazzo Chigi Gianni Letta), e potendo disporre della potente leva finanziaria della Cassa depositi e prestiti (nel cui cda siedono pure le Fondazioni bancarie), ma anche designando alla presidenza della Consob, cioè dell’authority che controlla le società  quotate in Borsa, quel Giuseppe Vegas, già  parlamentare del Pdl e viceministro proprio dell’Economia, e per anni anche l’uomo che ha seguito passo passo le leggi Finanziarie in Parlamento. Una potenza di fuoco davvero impareggiabile, tutta a disposizione del ministro dell’Economia che addirittura arrivò a sostenere che a Palazzo Koch fosse preferibile un giovane come Grilli (classe 1957) rispetto ad un anziano come Saccomanni (classe 1942).
Eppure dalla sua Tremonti ha avuto per un po’ – anche opportunisticamente – schierate le banche, il leader della Lega, Umberto Bossi, e senza alcun entusiasmo il premier, Silvio Berlusconi. Il quale, pur rendendosi conto dello strapotere che avrebbe conquistato il ministro dell’Economia, non ha mai saputo proporre un’altra candidatura.
Poi le cose sono cambiate. I rapporti tra Berlusconi e Tremonti sono precipitati. La loro è diventata una convivenza obbligata nella quale ciascuno gioca una propria partita. Berlusconi ha capito che non avrebbe avuto alcun senso schierarsi contro Napolitano e soprattutto contro Draghi, colui che da Francoforte potrà  essere solo un suo alleato. Anche in funzione anti- ministro dell’Economia. Così per Giulio Tremonti la scelta di Saccomanni come prossimo governatore ha davvero il sapore di una cocente sconfitta. L’ultima.


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