L’occidente a un motore solo
Perfino Wall Street ieri ha reagito non tanto al piano Obama, quanto al disastro europeo. È significativo quanto spesso in questi giorni la Borsa americana sia risucchiata dalle angosce del Vecchio continente. Un tempo era il contrario, le piazze europee erano al traino del New York Stock Exchange. Ma quel che è avvenuto ieri a Francoforte ha una gravità che l’America non può ignorare.
La partenza di Juergen Stark dalla Bce (un tecnocrate cristiano-democratico che a suo tempo ebbe un ruolo di punta durante gli esami di ammissione dell’Italia nell’unione monetaria) segue di pochi mesi quella dell’altro tedesco, Axel Weber. Parafrasando Oscar Wilde ieri circolava la battuta per cui “perdere un tedesco è una disgrazia, perderne due è negligenza”. Il timore è che la frattura della componente tedesca alla Bce preluda a qualcosa di peggio: una fine degli acquisti di bond italiani e spagnoli, che equivale al salto nel buio. L’Italia ieri per le quotazioni dei “certificati assicurativi” contro la bancarotta sovrana, era valutata sui mercati perfino peggio della Spagna. E dietro la sfiducia verso i mediterranei, incombe il rischio di una spirale di crac bancari: i titoli pubblici dei paesi a rischio di default riempiono i bilanci delle aziende di credito. La Société Générale ieri è crollata ai minimi storici da quando fallì la Lehman nel 2008. L’insieme delle banche europee ha già perso un terzo del suo valore dall’inizio dell’anno. Molti esperti ormai parlano di “banche-zombi”, cadaveri che camminano, tecnicamente insolventi se i loro titoli di Stato fossero conteggiati al valore di mercato.
Il fatto che la delegazione tedesca sia passata “all’opposizione” dentro la Bce, è di per sé anomalo: si tratta del paese che è l’azionista di maggioranza dell’Unione. Il disaccordo tedesco sulla politica di sostegno monetario a Italia e Spagna, si riflette poi nell’atteggiamento del governo di Berlino di fronte al pericolo-recessione. Angela Merkel avrebbe dei margini di manovra perfino superiori a quelli di Obama, se volesse avviare una manovra di spesa pubblica anti-recessiva. Ieri invece il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble lo ha di nuovo escluso: «Non combatteremo la crisi facendo nuovi debiti». L’elettorato tedesco è già fin troppo scettico sui salvagenti monetari lanciati all’Europa mediterranea, figurarsi come reagirebbe di fronte a nuove politiche di spesa. La diffidenza Nord-Sud che avvelena più che mai i rapporti dentro l’Unione europea, “sterilizza” di fatto le risorse che la Germania potrebbe mettere in campo contro la recessione.
Questo accade proprio mentre in America molti applaudono Obama perché “fa il tedesco”. È l’elogio che gli rivolge il Washington Post: “Il presidente ha studiato gli ammortizzatori sociali e gli incentivi con cui la Germania è riuscita a mantenere la sua disoccupazione più bassa della media occidentale durante la recessione. E anche l’insistenza di Obama sul rilancio di una vocazione manifatturiera, è un omaggio al modello tedesco”. L’elogio non è isolato. Col discorso di giovedì sera a Camere riunite Obama ha già ottenuto un risultato: è ripartito all’offensiva compattando dietro di sé i suoi elettori liberal, l’ala progressista che negli ultimi mesi era delusa. Il Nobel dell’economia Paul Krugman, uno dei suoi critici più severi da sinistra, promuove a pieni voti il piano-lavoro. Piace in particolare la forte riduzione della ritenuta alla fonte sulla buste paga dei lavoratori (1.500 dollari l’anno), raddoppiata con uno sconto analogo che riduce il “cuneo fiscale” per il datore di lavoro; e il bonus aggiuntivo di 4.000 dollari per l’assunzione di chi è senza lavoro da oltre sei mesi. Una parte del piano Obama si scontrerà con l’ostruzionismo della destra, ma almeno gli sgravi fiscali dovrebbero ottenere qualche voto repubblicano al Congresso. «Obama sceglie la via giusta – dice Christine Lagarde – cioè sostegno alla crescita subito, assortito da un risanamento del deficit successivo». Ma bisogna essere in due per ballare il tango, e la Merkel non ci sta.
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