L’occasione della crisi

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Al contrario, i più sembrano pensare (ammesso che ci pensino) che il cambiamento di abitudini sia un lusso da tempi grassi, e che la crisi confischi le scelte alternative, o le riduca tutt’al più a divergenze sugli espedienti per passare la nottata: due scuole di chirurgia rivali, una che predilige l’operazione azzardata e riuscita (e il paziente morto), l’altra che prova a combinare bisturi e rianimazione. La chiamo conversione, perché di questo si tratta, di un cambiamento di vita, e non della sola riconversione da una produzione e una merce a un’altra produzione e un’altra merce. Che la conversione abbia un senso religioso non nuoce affatto, perché la posta è qualcosa di sacro, come il rapporto fra gli umani, le altre creature, e il pianeta. Se si leggono queste frasi del Papa, appena citate da Bagnasco: «Talvolta quando si parla di conversione, si pensa unicamente al suo aspetto faticoso, di distacco e di rinuncia. Invece, la conversione cristiana è anche e soprattutto fonte di gioia, speranza e amore», si può laicamente trasferirle ai rapporti sociali: la cui conversione alla sobrietà , al disgusto per privilegi e disuguaglianze, alla solidarietà  e alla cura delle generazioni future non è affatto votata al sacrificio e alla mortificazione – al contrario. Viene un momento, nella esistenza personale e in quella del genere umano, in cui scelte e fatti compiuti accumulati sono così pesanti da impedire di “cominciare daccapo”, e anche soltanto di cambiare significativamente strada. Si vede che lo si deve fare, ma non lo si può più fare. Né per propria scelta razionale (la cosa più improbabile) né perché la situazione di necessità  costringe. Siamo a questo punto?
Il feticcio della crescita indiscriminata ha, lui sì, portato già  a una decrescita forzosa e mortificata, e tutt’altro che provvisoria. Molto prima del 2007 o del 2011 eravamo avvisati che stavamo vivendo ben al di là  delle nostre possibilità . La Crescita – la scrivo maiuscola, in omaggio alla stranezza per cui tutti la pronunciano come se sapessero davvero che cos’è – è come la carota che penzola davanti al muso del somaro bastonato dal carrettiere. Il somaro sta per stramazzare, e il carrettiere lo bastona più di prima. Questa “decrescita”, recessione e impoverimento, si misura già  sul metro di famiglie e individui che riducono i propri consumi, per necessità  o paura del futuro. Vedremo come la restrizione si tradurrà  in una modificazione nella scala dei desideri e dei valori. Che cosa, cioè, venga sentito come “superfluo”. (Mi viene in mente quella “riduzione dei consumi” che sperimentano città  assediate decimate e affamate, come Sarajevo: e la commovente combinazione che in quegli stremi molte donne cercavano fra il pane e le rose).
La nostra civilizzazione è questo, la scelta di qualcosa di preziosamente superfluo che, una volta che esista, diventa indispensabile, e preclude il rientro in altre possibilità  – se non altro per l’energia che ha dissipato e per lo scarto ingombrante e inquinante che lascia. Fin dalle collezioni delle caverne preistoriche, gli umani sono stati affascinati dalle cose rare. Le cose rare sono diventate semplicemente le merci più costose. Si compra qualcosa non perché “ce l’hanno tutti”, ma perché non ce l’hanno ancora tutti. Per i giovani la promozione sociale non è più disponibile se non nel consumo, e il consumo spesso non è disponibile se non nella rivolta e nel black-out, nel saccheggio: nonostante le lamentele di grandi magazzini e assicuratori, le merci scelte dagli scassatori di Londra erano una specie di grandiosa campagna promozionale – salve le librerie, illese. (Deve averci pensato Bruce Weber per la nuova campagna pubblicitaria che dice “Don’t steal the Jacket”). Il Bagnasco che insiste sulla necessità  di “correggere abitudini e stili di vita” sta parlando di Berlusconi, il cui peculiare consumismo è un caso clinico. Ma si tratta anche del consumismo, sessuale e no, di tutti, della universale patologia. Nemmeno i governanti (l’eccezione sono i nostri, mutazione in Capi non-governanti) si attentano più a sostenere che “indietro non si torna”. Proclamano la ritirata sulla via del nucleare. Lo fanno dopo che anche la commovente intenzione giapponese di riparare a Hiroshima col suo apparente contraltare pacifico gli si è ritorta contro a Fukushima.
La crisi non è se non la velocità  bruscamente vertiginosa che ha preso il guazzabuglio ingovernato che chiamiamo, ormai pigramente, capitalismo. Non si sa se ridere o piangere a sentire che “il sistema mondiale” andrà  a fondo o no nel giro del prossimo mese, delle prossime settimane, delle prossime ore. Ma la crisi è la sfilata in cui il re col suo codazzo di cortigiani esce finalmente a mostrare ai sudditi la meraviglia del suo abito, e il bambino screanzato che non tiene gli occhi a terra esclama: “Ma è nudo!” Permette di guardare come un bambino – dopo essersi sfregati bene gli occhi, dopo una lunga pesante dormita – le cifre degli armamenti, o l’ingaggio daghestano di Eto’o, o le automobili ferme che abitano le città  e ne sfrattano gli umani, e di esclamare che è una cosa da pazzi. Occorre coraggio per affrontare dentro la crisi l’idea di un altro modo di muoversi, di abitare, di impiegare il vento e la monnezza e il tempo, di imparare e insegnare. Ma è difficile che un paese come l’Italia (o come la Grecia, cui bisogna intanto volere bene) ne esca se non puntando a fare, meglio che sa, le scelte che la terra intera ha bisogno di fare – e qualcuno ha cominciato. Martedì, si è simbolicamente calcolato, il fabbisogno umano ha superato le risorse del pianeta: notizia (Cianciullo e Spielberg a parte) scivolata via.
Ma questo è un discorso lungo, e i tempi sono stretti, e intanto Berlusconi è sempre lì, e di questioni simili lui e i suoi se ne fregano del tutto… Infatti, e bisognerebbe mettere assieme sgombero e costruzione. In Parlamento, dove bisogna che succeda, non succede, perché c’è il voto di fiducia e il dettaglio del vitalizio. Quei Greci avevano inventato l’ostracismo. Non era una sanzione penale, ma civile: si premuniva da chi sembrasse costituire un pericolo per Atene. Era un esilio provvisorio, e non confiscava i beni del bandito. Noi non ce l’abbiamo, ma qualcosa di simile è avvenuto con le elezioni amministrative e poi, soprattutto, coi referendum. Non basta a far cadere il governo, ma basta e avanza a motivare un effettivo governo ombra e una dissociazione da un gioco parlamentare degradato. L’opposizione parlamentare è forse troppo ipnotizzata, oltre che da un astratto senso di responsabilità , dalla suggestione del nome di Aventino, in un contesto che lo rende del tutto incomparabile. Si sente comunque il bisogno di qualcosa che somigli a uno sciopero alla rovescia, un governo alla rovescia. Chiedere le dimissioni, poi chiederle subito, poi chiederle ad horas, è giusto, e le chiedono gli industriali e i vescovi e i coristi di montagna: ma le ore passano, e i giorni e i mesi. Chiedere “la crescita” va forte, finché quelli tagliano e basta, ma non sarà  granché quando si presenteranno con qualche foglietto di fregnacce da rilancio. L’opposizione, cui si deve spesso essere grati, è forse tentata sotto sotto di lasciare che sia questo non-governo a cavare dal fuoco castagne che scottano troppo. Ma una forza politica che raddrizzi la deriva indecente di ricchezza e povertà  (anche la patrimoniale è ormai slogan universale, benché, nella versione confindustriale, “piccola”, eh!) può affrontare le sfide più impegnative del passato – pensioni e demografia comprese – e del futuro. E restituire alla politica, in Italia e in Europa, i suoi diritti.


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