Lampedusa, alle origini dell’incendio la rabbia covata nel “gabbio”

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LAMPEDUSA – Lo chiamavano “il gabbio”. Tutti coloro che in estate hanno avuto a che fare con il Cpsa di Contrada Imbriacola usano questa parola per indicare una zona off limits all’interno del centro. Un’area di detenzione rafforzata in cui sono stati rinchiusi nei mesi scorsi tutti i tunisini maschi sbarcati a Lampedusa. Il nome si riferisce all’inferriata che separava questi reclusi dai profughi arrivati dalla Libia, dalle famiglie e dalle donne. L’esistenza del “gabbio” è stata giustificata con la necessità  di proteggere le categorie vulnerabili, separandole dai tunisini. Di fatto ha delimitato una zona di ulteriore segregazione per gente che è stata trattenuta non pochi giorni, ma per oltre un mese in condizioni proibitive. Proprio nel “gabbio” è covata la rabbia ed è montata l’esasperazione che ha portato all’incendio del centro, alla fuga di massa e agli scontri con i lampedusani. Non ci sono fotografie, video o descrizioni dell’interno del gabbio. In molti casi, anche agli operatori umanitari è stato vietato l’accesso all’area dei tunisini. Intanto, all’esterno, praticamente tutti i Lampedusani sostenevano che, “a differenza dei poveri profughi libici, i tunisini sono tutti delinquenti, gente fuggita dalle galere”. Convinzione piuttosto diffusa anche tra gli uomini delle forze dell’ordine, che fuori dal Cpsa ci dicevano: “Li abbiamo identificati, alcuni sono stati rimpatriati anche due o tre volte nei mesi scorsi e sono tornati a Lampedusa”. Una conferma della situazione espolosiva all’interno del gabbio, arriva da una nota di Francesca Zuccaro, Capo Missione di Medici Senza Frontiere per i progetti sull’ immigrazione in Italia. “L’incendio al CPSA di Lampedusa si é sviluppato nella zona chiusa del centro, dove i migranti, in prevalenza uomini di origine nordafricana,sono trattenuti da giorni – alcuni da settimane – e sperimentano restrizioni all’accesso di servizi di base quali l’assistenza sanitaria e legale – afferma Zuccaro – Spesso l’accesso a queste zone é limitato anche per gli operatori umanitari”. Il gabbio non è servito a mantenere l’ordine, al contrario ha favorito un atto di ribellione mettendo in pericolo la vita di migranti, operatori, forze dell’ordine e lampedusani.

Come documentato dall’inchiesta di Redattore Sociale a fine agosto, a Lampedusa si è cercato di “nascondere” la presenza di migliaia di profughi dalla vista dei turisti,  con una macchina dei soccorsi che li rendeva quasi invisibili, dall’arrivo sul molo alla reclusione nei centri (anche dei minori) fino al trasferimento sulle navi della Grimaldi.  La “copertura” è saltata velocemente e nel peggiore dei modi. Tuttavia, se era evidente che il centro di contrada Imbriacola era a rischio, non è altrettanto chiaro se vi fosse un piano d’evacuazione antincendio a norma di legge. Se c’era non ha funzionato. Quattro disabili che non potevano camminare sono stati portati via a braccia, mentre i cancelli sono stati aperti e tutti gli altri fuggivano alla rinfusa in ogni direzione con le fiamme alle spalle che divoravano velocemente tre edifici. “La nostra equipe ha contribuito alle operazioni di soccorso e all’evacuazione di alcune persone che necessitavano assistenza, tra le quali anche alcuni disabili e una donna incinta –  racconta ancora Francesca Zuccaro di Msf –  Abbiamo distribuito oltre 300 coperte ai migranti. Al poliambulatorio dell’isola abbiamo collaborato con il personale sanitario per trattare alcuni pazienti che sono rimasti intossicati dal fumo”. (raffaella cosentino)   © Copyright Redattore Sociale


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