La vita dietro le sbarre degli evasori americani
Nel tentativo disperato di evitarle il carcere, il suo legale Alan Dershowitz, l’avvocato delle celebrità , disse all’ultimo momento che in cambio della libertà la sua cliente «era pronta a risolvere da sola il problema dei senzatetto» ed era «disposta a regalare alla città di New York tutti i suoi alberghi». Niente da fare: quattro anni di galera. Ridotti solo successivamente e a caro prezzo. Ma dopo un anno e mezzo in penitenziario.
Non si scherza, in America, su queste cose. Basti leggere il libro «La corruzione in Italia» scritto con Grazia Mannozzi da Piercamillo Davigo, dove il magistrato protagonista di Mani Pulite racconta della sua visita al carcere di Butner, nel North Carolina, dove è stato rinchiuso fra gli altri Bernie Madoff, l’ex presidente del Nasdaq: «La cosa che per prima mi colpì fu che tutti i detenuti sono in uniforme e quando passa una guardia scattano dicendo nome e numero di matricola: “Smith John, matricola 324, signore!”». La seconda che il lavoro è obbligatorio: «Il direttore mi spiegò che facevano camicie per le forze armate e occhiali da vista per i veterani a riposo. Mi pareva impossibile. (…) “Guardi”, mi disse, “qui da noi i detenuti non possono ricevere soldi o pacchi dai parenti: possono comprare qualcosa solo col denaro che si guadagnano da soli, qua dentro”». La terza che se un carcerato sgarrava poteva pagarla cara: «Se uno è cresciuto al sole della Louisiana, per esempio, non si trova tanto bene in Alaska».
Serial killer? Terroristi? Rapinatori? No, rispose il direttore al giudice italiano: «Grossomodo la metà è dentro per traffico di stupefacenti, l’altra metà è composta da colletti bianchi». Vale a dire? «Evasori. Prevalentemente evasori fiscali». E davanti allo stupore dell’interlocutore, rimasto a bocca aperta, l’uomo aggrottò le sopracciglia e spiegò con solenne severità : «Sa, hanno mentito al popolo americano». Per terra, disegnata sui pavimenti, c’era una linea gialla: «Se un detenuto la passa spariamo».
«Barbarie!», dirà inorridito qualcuno che tutti i giorni, al contrario, si riempie la bocca esaltando l’America, i valori americani, il modello americano. Il fatto è che laggiù l’idea che le tasse vanno pagate quale che sia il partito che domina il Congresso o quale che sia il presidente che sta alla Casa Bianca, è centrale nel rapporto fra i cittadini e lo Stato. Rubare sulle tasse, lì, non è una prova di furbizia: è un atto criminale. In Italia l’avvocato Attilio Pacifico, uno dei protagonisti del processo Sme, arrivò a fare il bullo sfidando tutti: «Embè? So’ un evasore. Allora? Qual è er probblema?». In America sarebbe considerato un nemico della società . E trattato come tale.
Un esempio? Le autorità federali assediarono per mesi, quattro anni fa, una coppia di anziani evasori che si era asserragliata in una casa-fortezza con tanto di torretta di avvistamento nel New Hampshire dopo una condanna a cinque anni di carcere per non avere pagato le tasse federali. Esattamente come se avessero rapinato una banca o sequestrato qualcuno.
Un paio di numeri? Nei primi due anni della legge «manette agli evasori» voluta da Franco Reviglio, padre dello scontrino fiscale, furono arrestate in totale 93 persone. Poi tutto evaporò «all’italiana». Tanto più che nel 1988 una sentenza della Cassazione, su ricorso dell’imprenditore Paolo Meneghin imputato di non aver tenuto il registro delle fatture per un anno, disse che anche i reati fiscali per cui era previsto l’arresto potevano essere sanati con una oblazione. Le conseguenze erano immaginabili: tana libera tutti. Negli States, al contrario, fra il 2000 e il 2005 gli evasori finiti in carcere sono stati 9.581. Più altri 998 nel 2006 e 1.112 nel 2007 per i soli reati fiscali federali. A tutti questi, per capirci, vanno aggiunti quelli finiti in galera Stato per Stato, dalla California al Massachusetts. Condanna media: 30 mesi a testa. Ancora più dura la pena per i manager delle imprese colpevoli di avere evaso il fisco: 37 mesi. E vanno dentro sul serio. Già dopo la condanna in primo grado. Mica dopo anni di attesa della Cassazione. Sperando magari in un condono.
Da noi, che si sappia, è andata in galera davvero solo Sofia Loren, che nel 1982 fu costretta a costituirsi («Colpa del mio fiscalista. Mai pensato di non pagare le tasse») e fu rinchiusa nel carcere di Caserta 17 giorni. Oltre Oceano, il divo di Hollywood Wesley Snipes, condannato a 3 anni per evasione fiscale, è dal 9 dicembre 2010 nel carcere di McKean a Bradford, in Pennsylvania da dove dovrebbe uscire, salvo sconti di pena (auguri) il 19 luglio 2013.
Giustizia da cowboys? No, non succede solo in America. Ma in diversi altri Paesi dove lo Stato è uno Stato che esige rispetto. Tra gli altri, citiamo la Germania. Dove il governo scoprì nel febbraio 2008 i contribuenti con conti illegali all’estero andando per le spicce. Cioè comprando con quattro milioni e mezzo di euro da Heinrich Kieber, un ex dipendente della banca del Liechtenstein, un elenco di 4.527 clienti del Principato: una cosa che, fosse successa da noi, apriti cielo! Ancora più interessante, per capire, è l’arresto spettacolare del potentissimo Klaus Zumwinkel, allora amministratore delegato delle Poste. Che venne ammanettato per evasione fiscale dopo un’irruzione all’alba nella sua lussuosa villa a Colonia, da parte di decine di agenti speciali. Avrebbero potuto arrestarlo in maniera meno scenografica e più sobria? Sicuro. Ma era in ballo qualcosa che nei Paesi seri è determinante: l’affermazione che lo Stato, per far rispettare la legge, non guarda in faccia a nessuno.
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