La Turchia chiude, il Sud Sudan avanza

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 GERUSALEMME.Comincia ad avere riflessi sul terreno la crisi diplomatica tra Ankara e Tel Aviv scoppiata la scorsa settimana con la pubblicazione del controverso rapporto Palmer (Onu) sull’arrembaggio israeliano alla nave turca Mavi Marmara (31 maggio 2010, nove civili turchi uccisi) e la decisione del governo turco di espellere l’ambasciatore israeliano in risposta alla decisione, ribadita dal governo Netanyahu, di non presentare scuse ufficiali per l’accaduto. Ieri circa 40 turisti israeliani provenienti in volo da Tel Aviv sono stati fermati al loro sbarco all’aeroporto di Istanbul e dopo essere stati separati dal resto dei passeggeri sono stati interrogati e trattenuti sotto stretta sorveglianza della polizia. I viaggiatori israeliani hanno subito lo stesso trattamento al quale erano stati sottoposti la notte prima diversi turisti turchi all’aeroporto di Tel Aviv.

La crisi diplomatica turco-israeliana si acuisce mentre si attenua quella tra lo Stato ebraico e un altro paese «amico», l’Egitto. I vertici militari del Cairo (che guidano il paese dalla caduta di Mubarak) e il governo Netanyahu sembrano intenzionati a superare la rottura delle relazioni rischiata il mese scorso dopo l’uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane da parte dell’Esercito israeliano. I generali egiziani intendono anche far costruire un muro a protezione dell’ambasciata israeliana al Cairo, dopo le recenti massicce manifestazioni di protesta seguite all’uccisione delle guardie di frontiera. Tuttavia è azzardato affermare, come fanno alcuni analisti, che cresce «l’isolamento internazionale» dell’esecutivo di destra alla guida di Israele che, peraltro, all’interno del paese deve fare i conti anche con un ampio movimento di proteste sociali. Se da un lato Israele litiga con i suoi vicini, dall’altro gli ultimi due anni hanno mostrato un sensibile aumento dell’appoggio dei paesi occidentali a Tel Aviv, soprattutto nel conflitto politico e diplomatico palestinesi: un ultimo esempio è la decisione della Grecia, due mesi fa, di impedire la partenza per Gaza delle navi pacifiste della «Freedom Flotilla 2». Da parte loro gli alleati statunitensi, messe definitivamente da parte le blande critiche dell’Amministrazione Obama alla colonizzazione ebraica dei Territori occupati, si preparano ora a bloccare con il veto il possibile riconoscimento dell’indipendenza palestinese che il presidente Abu Mazen intenderebbe fare tra un paio di settimane alle Nazioni Unite. Non è certo inoltre che i palestinesi, in seconda battuta, riescano a ottenere almeno il riconoscimento di Stato non membro, simile a quello del Vaticano, vista la posizione contraria di mezza Unione europea, Italia e Germania in testa.
Ma la diplomazia israeliana continua a raccogliere risultati lusinghieri anche nel continente africano. Ai rapporti già  stretti con l’Etiopia, Tel Aviv adesso può aggiungere l’alleanza con il neonato Sud Sudan. Si obietterà  che questo Stato ha, al momento, un peso pari a zero. Ma il Sud Sudan ha spaccato e indebolito il Sudan «nemico» di Israele. Si prepara inoltre a giocare un ruolo nella delicata questione delle quote d’acqua del Nilo, a probabile svantaggio dell’Egitto e del Sudan che sino ad oggi hanno goduto della maggior parte delle immense risorse idriche.
Ma i leader del Sud Sudan, stando alle indiscrezioni che circolano da giorni, dovrebbero ricambiare con un «regalo» l’appoggio (si dice armamenti e consiglieri militari) ricevuto per lungo tempo dagli israeliani, aprendo l’ambasciata del nuovo Stato a Gerusalemme, città  che lo Stato ebraico ha unilateralmente proclamato sua capitale ma che per la legge internazionale era e rimane un territorio occupato (per questa ragione tutte le ambasciate, inclusa quella degli Usa, sono a Tel Aviv). Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, secondo la stampa sudanese avrebbe promesso a una delegazione israeliana guidata dal deputato Danny Danon (Likud) che, dopo aver resistito alle pressioni arabe e palestinesi, che il suo paese aprirà  la sua ambasciata a Gerusalemme, anche per ricambiare l’«ospitalità » che Israele ha dato ad alcune migliaia di profughi di guerra sudsudanesi (e che ora Tel Aviv rispedirebbe volentieri a casa).


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