La rivolta dell’America “Pena di morte, ora basta”
La siringa «colpisce come il fulmine», racconta lo studio definitivo sui 35 anni di pena capitale in America da quando fu riammessa nel 1976, senza logica, senza senso, senza umanità . Ma soprattutto senza giustizia. Cade su chi cade, non necessariamente sui criminali più efferati, spesso addirittura su innocenti che hanno soltanto la colpa letale di essere neri o di vivere negli Stati del Sud dove ancora regna il culto del taglione, di non avere i soldi per assumere gli avvocati migliori. Nessun ricco è mai stato mandato sul patibolo. L’omicidio di Stato è un grottesco privilegio riservato ai poveri.
Non c’è ormai quasi più giurista sensato, associazione o circolo di studiosi e criminologi che la difenda od osi sostenerne l’efficacia deterrente, che è sempre l’ultimo rifugio dei forcaioli. Nel 2010, gli omicidi volontari negli Stati Uniti sono stati più di 15 mila e le esecuzioni, per delitti consumati a volte undici anni prima, come nel caso di Troy Davis ucciso la scorsa settimana dopo che tutti i testimoni contro di lui avevano ritrattato e ammesso di avere mentito, sono state 46. Un’esecuzione ogni 326 omicidi non può rappresentare un deterrente per futuri assassini, per uomini e donne che già , nella loro decisione di uccidere un altro essere umano, si sono posti fuori dal timore delle conseguenze. «La possibilità pur remota del supplizio – ha scritto l’Associazione nazionale degli avvocati – spaventa soltanto coloro che non hanno nessuna intenzione di commettere un delitto».
Se la forca continua a ergersi, nella sua versione paramedica attuale con barelle, flebo e aghi, è soltanto grazie alla ottusa, demagogica viltà opportunistica di imbonitori della politica che mungono e coltivano gli istinti più primitivi e irrazionali degli elettori. L’applauso più sonoro e l’ovazione più convinta ascoltati finora nella serie di dibattiti elettorali fra repubblicani in lotta fra di loro per sfidare Obama nel novembre 2010 sono stati riservati all’impresentabile eppure popolarissimo governatore del Texas, Rick Perry. Quando si è lanciato in un’apologia di quella pena che il suo Stato da decenni, già sotto il governo di George W Bush, usa con più passione di tutti gli altri stati i suoi condannati, dietro il “muro” rosso del penitenziario mattatoio di Huntsville, la platea ha esultato. Sono stati 476 in 25 anni, già undici nell’anno in corso, le vittime del Texas. Per trovare il secondo Stato americano in questa lugubre olimpiade di sedie elettriche, camere a gas, fucilazioni, cappi, si deve scendere ai 109 della Virginia, meno di un quarto. Dunque, o il Texas è una terra brulicante di assassini, o l’assassino peggiore è lo Stato del Texas.
Neppure l’osservazione che il patibolo resta in funzione in alcuni dei più osceni sistemi giudiziari del mondo, come la Cina, Cuba o l’Iran, sembra convincere gli ultrà della morte della barbarie iniqua della forca. Per una nazione come gli Stati Uniti, che si vanta di avere «il miglior sistema giudiziario del mondo», una vanteria che almeno cinesi e iraniani ci risparmiano, la certezza che tra quei 1.270 messi a morte dal 1976 a oggi almeno il 3% erano innocenti del crimine contestato in base alle ricerche post mortem, leggermente tardive, dovrebbe imporre almeno una moratoria immediata.
La invoca, non per moralità ma per praticità , l’Associazione Legale Americana, che dopo anni di lavoro si è arresa: il sistema non funziona, è arbitrario, è iniquo e non è riformabile. Tre dei massimi giudici che nella Corte Suprema del 1976 formano con altri la maggioranza che reintrodusse le esecuzioni, ma «temporaneamente» precisò, rinnegarono poi il proprio voto. E addirittura l’autore e promotore del referendum che in California riaprì le camere della morte nel 1978, il magistrato repubblicano Don Heller, ha sconfessato la propria iniziativa, la scorsa settimana, in una lettera aperta di scuse. «Un sistema fallimentare da abolire subito, che costa fortune ai contribuenti, molto più della detenzione a vita». Quattro miliardi di dollari sono stati spesi in California dal 1978 a oggi per uccidere 13 detenuti: 300 milioni per ogni esecuzione.
«Indifendibile», «grottesca» secondo il New York Times la barbarie che continua a macchiare la reputazione del sistema giudiziario americano e cammina ancora sulle gambe di una democrazia diretta e spiccia che negli Stati del Sud più forcaioli non tollera che i candidati di destra osino mettere in dubbio il diritto di uccidere nel nome dello Stato. Non ci sono argomenti o casi che possano piegare la demagogia e la “cultura del vigilante” che attanaglia coloro che si credono giusti. Neppure vedere il serial killer Gary Ridgeway che confessò quarantotto omicidi ma, collaborando con i magistrati, ebbe salva la vita mentre Teresa Lewis, accusata di complicità in un omicidio e riconosciuta semi inferma mentale fu messa a morte in Virginia, smuove la dipendenza emotiva e irrazionale di tanti nella formula dell'”occhio per occhio”. I suoi complici furono risparmiati.
Fino a quando una nuova generazione di leader politici della destra sudista, quella che a volte si ammanta della blasfema etichetta di “cristiana”, resterà succube delle ovazioni che hanno salutato il forcaiolo Rick Perry (possibile futuro presidente) per vincere le elezioni, la siringa continuerà a pompare veleni nella braccia di chi le capita sotto. L’ascensore per il patibolo porta innocenti a morire e colpevoli a governare.
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