LA RIDUZIONE DEL DANNO
A giugno Tremonti aveva garantito che, d’accordo con l’Europa, l’Italia non aveva bisogno di una vera e propria manovra di bilancio, e per questo aveva annunciato una modesta leggina di minima «surplace» contabile. Ai primi di luglio abbiamo scoperto che eravamo sull’orlo dell’abisso. Così è cominciata la folle teoria estiva dei decreti usa e getta. Prima la stangata del contributo di solidarietà sui ceti medio-alti. Poi la batosta sulle pensioni d’anzianità cumulate con il riscatto della laurea e della naja. Poi ancora la finta caccia agli evasori fiscali a colpi di «carcere & condono». Trovate estemporanee di questo o quel ministro, frustate casuali all’una o all’altra categoria. Senza logica politica, senza tenuta economica. Non solo i cittadini allibiti e gli speculatori affamati, ma l’intero establishment interno e internazionale ha fatto giustizia di tanta irresponsabile approssimazione. L’Unione Europea e la Bce, la Banca d’Italia e la Confindustria. Da ultimo, addirittura il Capo dello Stato, che con il suo intervento ufficiale di due giorni fa ha compiuto un passo senza precedenti, fin dai tempi della Prima Repubblica. Ha imposto la linea non solo sui tempi, ma persino sui contenuti della manovra.
Alla fine, dopo molte figuracce penose esibite sul mercato politico e molti miliardi bruciati sul mercato finanziario, il governo si è dovuto arrendere. L’ennesima, radicale riscrittura della manovra non cancella le storture di fondo. Con l’aumento dell’Iva e la reintroduzione della supertassa sui redditi oltre i 300 mila euro si fa persino più massiccio il ricorso alla leva fiscale, che già occupava quasi il 70% del menù dei provvedimenti varati nelle stesure precedenti. Svanisce così, ormai anche sul piano simbolico, la ridicola promessa del Cavaliere: «Non mettiamo le mani nelle tasche dei contribuenti», aveva giurato il premier, che ora invece in quelle tasche ci entra non solo con le mani, ma con tutte le scarpe. Si anticipa il giro di vite sull’età pensionabile delle donne, e si rinuncia così a qualunque ambizione riformatrice più generale sul capitolo della previdenza. Resta la drammatica carenza di misure concrete per la crescita e lo sviluppo. Resta la plastica evidenza di un governo che non ha una visione sulla società italiana di oggi, né una soluzione per quella che vuole costruire domani.
Tuttavia la quinta manovra, per quanto iniqua e sgangherata, almeno un pregio ce l’ha: i saldi contabili sono finalmente più solidi, come la stessa Commissione di Bruxelles ha già puntualmente riconosciuto. È certo il gettito in aumento dell’imposta sul valore aggiuntivo, il «male minore» invocato da tempo dalla Banca d’Italia e osteggiato per puro puntiglio dal ministro del Tesoro. È certo l’incasso a regime dell’intervento sulle pensioni delle donne, suggerito da Confindustria e ostacolato per puro ideologismo dal leader della Lega. È certo, per quanto risibile, il maggior introito del mini-tributo di solidarietà per i ceti più abbienti, inopinatamente preferito a una seria imposta sui grandi patrimoni per puro opportunismo elettorale. Dunque, almeno sulla copertura integrale dei 45 miliardi, la manovra risulta oggettivamente migliorata. Anche se rimane la sua irrimediabile inefficacia, rispetto alle esigenze di equità sociale e alle urgenze di rilancio del Pil. E anche se rimane la sua probabile insufficienza, rispetto agli impegni sottoscritti in Europa sul pareggio di bilancio e alle aspettative delle società di rating e della business community.
Quella di ieri, in definitiva, è solo una tardiva «riduzione del danno». I problemi dell’Italia sono tutt’altro che risolti. Nel momento in cui aggiusta la manovra, il governo certifica paradossalmente la sua fine. Berlusconi, Bossi e Tremonti si acconciano a continui compromessi al ribasso, ormai logorati dentro una convivenza da separati in casa, che li spinge a camminare a tentoni nella buia notte calata su Eurolandia. Il governo non c’è più. Lo sostituisce Napolitano, lo commissaria la Banca d’Italia, lo etero-dirigono i mercati. La stessa coalizione di centrodestra ne è tanto consapevole, che si vede costretta all’ultimo sfregio alle istituzioni: la richiesta del voto di fiducia, su una manovra che lo stesso Pd era pronto a non votare ma a non ostacolare, sembra più un atto di forza interno al centrodestra che non un atto di sfida rivolto al centrosinistra.
In queste condizioni si può tamponare un’emergenza congiunturale, ma non si può affrontare una crisi globale. Lo scrive ormai anche la grande stampa mondiale, dal «Wall Street Journal» al «Financial Times»: l’Italia è unanimemente considerata la zavorra che rischia di affondare l’euro. Per questo, ancora una volta, l’unica via d’uscita da questa tempesta imperfetta è l’approvazione rapida del decretone, e poi le dimissioni immediate del governo. Sarebbe l’ultimo, e forse l’unico gesto di responsabilità compiuto dal presidente del Consiglio. Con la quinta manovra si recupera un po’ di attendibilità aritmetica, ma non si ricostruisce la credibilità politica. Quella, per il Cavaliere, è perduta per sempre.
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