LA RICETTA DELLA CRESCITA

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Un governo che non ci crede non riuscirà  mai a cambiare le aspettative di investitori che continuano a essere molto negative sul nostro Paese: anche ieri, l’ottimismo dei mercati dopo l’annuncio di politiche monetarie espansive coordinate tra le due sponde dell’Atlantico non ha intaccato lo spread fra i nostri titoli di Stato e i Bund tedeschi, ritornato ai livelli di prima degli interventi della Bce.
Purtroppo il nostro governo ha ampiamente dimostrato di non credere nella possibilità  che l’Italia ce la faccia da sola. Non ci ha mai creduto il presidente del Consiglio che, alle prime avvisaglie della crisi di credibilità , ha chiesto aiuto all’Europa sostenendo che non potevamo farne a meno, il peggior segnale possibile da dare ai mercati, consci del fatto che il nostro Paese è troppo grande per essere salvato. Non ci crede il ministro Tremonti che continua a ripetere che è arrivato il momento degli eurobond, come se fossero la nostra unica ancora di salvezza. In realtà  è vero proprio il contrario: solo un’Italia che mostri di potercela fare da sola renderà  possibili gli eurobond o qualsiasi altro strumento più o meno esplicito di condivisione dei costi del debito dei paesi periferici. È un problema politico non certo economico ad allontanare questa prospettiva e di questo problema il nostro governo, prima ancora che la tanto vituperata Angela Merkel, è parte integrante. Come ricordava ieri Daniel Gros su queste colonne, i disarmanti tentennamenti italiani nel varare la manovra hanno rafforzato la convinzione tra i contribuenti tedeschi di avere di fronte un Paese a cui, se si dà  una mano, si prende un braccio, che allenta la presa sul risanamento dei conti pubblici non appena qualcuno (la Bce) li aiuta.
Per credere nel salvataggio del nostro Paese bisogna credere nelle riforme a costo zero, misure che possono rilanciare la nostra economia anche quando non ci sono soldi da spendere. Paradossalmente la crisi e gli errori del nostro esecutivo non fanno che renderle ancora più numerose ed efficaci. Il governo, come sottolineato ieri da Confindustria, ha varato la manovra più recessiva che si potesse confezionare, rendendo con il suo operato indispensabili nuove manovre che dovranno rimediare al peggiore andamento della nostra economia rispetto alle previsioni dell’esecutivo. Il dato saliente documentato ieri dal centro studi di viale dell’Astronomia è che è una manovra tutta incentrata sulle tasse anziché sui tagli di spesa. Se sbagliano, queste valutazioni degli industriali lo fanno per difetto: secondo le nostre stime (vedi lavoce.info) il contributo delle entrate all’aggiustamento potrebbe arrivare nel 2012 addirittura all’86% nel caso in cui gli enti locali reagissero ai tagli aumentando le imposte locali. La pressione fiscale salirà  di ben due punti, fino al 44,6% e il peso delle entrate sul Pil al 48,7% il che significa che per ogni euro generato nel nostro Paese, cinquanta centesimi finiranno all’erario. Si introdurranno una decina di nuovi balzelli, tra cui l’ennesima tassa intestata a Robin Hood che graverà  questa volta anche su imprese i cui prezzi sono regolati da autorità  pubbliche in modo tale da non generare extra-profitti e remunerare unicamente gli investimenti in maggiore efficienza. Insomma, si tratta della tassa più distorsiva che si potesse brevettare. Invece dei tagli annunciati, ci sono diverse spese discrezionali in più. Fra queste, i 5 miliardi assegnati al fondo Ispe, il Fondo interventi strutturali per la politica economica (Ispe). Sulla carta dovrebbero servire per azioni a sostegno dell’italianità  delle nostre imprese. In realtà  il governo è attivamente impegnato a invitare imprenditori cinesi a fare acquisti in Italia. Il fondo continuerà  così a essere un vero e proprio bancomat in mano al ministero dell’Economia per offrire copertura in corso d’anno a interventi non previsti dalla legge di bilancio: in un anno elettorale o pre-elettorale questi soldi verranno presumibilmente destinati a quelle prebende che rappresentano da sempre i più alti costi della politica. Strano che nessuno in Parlamento abbia chiesto di utilizzare queste risorse per ridurre il debito pubblico.
Come si vede, ci vuole davvero poco per fare meglio. Il vero interrogativo è: basteranno politiche per la crescita a invertire la china, anche sapendo che normalmente queste riforme (ieri Confindustria ne ha elencate una decina) hanno effetti graduali, che si materializzano nel corso del tempo? Io penso di sì a condizione che siano riforme che liberino il lavoro, facilitando gli ingressi dalla porta principale dei contratti a tempo indeterminato e la transizione fra inattività  (tra cui la scuola) e il lavoro e spostando altrove la pressione fiscale. La ragione di questo è che gli italiani hanno oggi molto più bisogno che solo due anni fa di lavorare. Molti di loro hanno subito perdite ingenti dei loro patrimoni, o comunque non contano più di vivere dei loro rendimenti. Ci sono coniugi a carico che progettano di mettersi a lavorare e figli che stanno imparando a non contare più sull’eredità  dei loro genitori. Liberando il lavoro potremmo attenderci effetti molto più importanti che in passato sui tassi di partecipazione, sulla percentuale di italiani che lavora, genera reddito e paga le tasse. Il fatto che gli italiani abbiano già  di fatto pagato una patrimoniale a questo governo così inetto nell’affrontare la crisi ci dice anche che ci potrebbero essere effetti virtuosi anche sulla domanda da politiche che liberano il lavoro. Sono infatti proprio i consumi di chi ha visto decurtare le proprie ricchezze ad essere calati di più.


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