La reazione soft di Bibi Netanyahu

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E dopo aver respinto le dimissioni del premier (senza poteri reali) Essam Sharaf, hanno ribadito l’impegno dell’Egitto «a rispettare tutti gli obblighi e accordi internazionali compresi quelli per la protezione di ambasciate e di missioni diplomatiche sul suo territorio».
Morbida, oltre ogni previsione, la reazione di Netanyahu all’assalto alla sede diplomatica e alla fuga precipitosa dell’ambasciatore Yitzhak Levanon. «Intendiamo far tornare il nostro ambasciatore al Cairo al più presto, con i necessari accorgimenti di sicurezza», ha assicurato alla radio militare un portavoce del premier israeliano. «È un episodio grave che richiede correzioni», ha detto il portavoce aggiungendo subito dopo che «Israele non accusa l’Egitto…le autorità  egiziane hanno superato con successo (la crisi)… tutti i nostri cittadini sono usciti indenni».
La reazione soft di Netanyahu sorprende fino ad un certo punto. Per lui in ballo non c’è soltanto la necessità  di salvare i rapporti con un paese confinante che per tre decenni ha dato una mano (e molto di più) a Israele, spesso contro gli interessi dei palestinesi sotto occupazione militare (come la partecipazione al blocco di Gaza). Mostrandosi accomodante il premier israeliano punta ad emergere come un leader ragionevole di fronte alle crisi e alle rivolte che attraversano la regione. In particolare vuole far apparire il premier turco Erdogan e il leader presidente dell’Anp Abu Mazen due «irresponsabili» che, il primo rompendo le relazioni con Israele per le mancate scuse per la strage di nove cittadini turchi sulla nave Mavi Marmara e il secondo decidendo di andare alla proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina tra due settimane all’Onu, starebbero gettando nel caos questa parte del Medio Oriente.
In questa ottica i passi decisi da Erdogan e Abu Mazen sarebbero «passi falsi» e non la conseguenza della politica intrasigente di Israele. Il premier israeliano potrebbe raggiungere i suoi obiettivi visto il clima che si è creato. Non tanto quello di ricevere la solidarietà  di governi importanti per l’assalto subito dall’ambasciata al Cairo, quanto quello di persuadere diversi paesi a rinunciare ad appoggiare la dichiarazione d’indipendenza palestinese.
Erdogan d’altronde non sembra aver compreso che è in atto, e non da ieri, il tentativo di farlo apparire come un «fanatico leader islamico», un sobillatore turco di masse arabe. Sarebbe stato opportuno misurare le parole e mostrarsi più scaltro, ma il premier turco domani in visita ufficiale al Cairo (poi andrà  a Tripoli e Tunisi) arriverà  dopo aver affermato che «500 mila egiziani stanno maledicendo Israele». Parole in linea con i sentimenti di gran parte degli egiziani, stanchi della politica di appiattimento sulle posizioni degli Stati uniti, ma che contribuiscono a stringerli intorno il cordone sanitario occidentale, senza peraltro avere ancora ottenuto quelle alleanze strategiche che cerca con i paesi arabi post-rivoluzionari. I giornali turchi scrivono che l’obiettivo del viaggio di Erdogan è quello di avviare rapporti privilegiati con le nuove amministrazioni arabe per giocare un ruolo di punta nella riscrittura del nuovo ordine nell’area, volto a ridurre l’egemonia di Israele. Ma se per l’egiziano comune è un eroe, Erdogan non gode dello stesso status presso i militari al potere nel paese dei faraoni che, infatti, gli hanno imposto di rinunciare alla visita alla Striscia di Gaza sotto blocco israeliano.
Non intende congelare i rapporti con Israele, in alcun caso, il generale Sami Ennan, capo dello stato maggiore delle forze armate egiziane, amico dei principali comandanti militari Usa e leader ombra dell’Egitto in attesa di un passaggio dei poteri ai civili che si allontana ulteriormente. «Le crisi con la Turchia e l’Egitto non mi preoccupano – affermava ieri con tono sicuro Eytan Gilboa, un analista di punta del centro studi strategici “Begin-Sadat” di Tel Aviv- perché Erdogan non riuscirà  a convincere gli arabi, anzi la sua strategia volta a stabilire il predominio turco sul mondo islamico in Medio Oriente presto entrerà  in conflitto con gli interessi di gran parte dei regimi locali e anche con quelli dell’Iran». A Israele, aggiungeva Gilboa, preoccupa di più la «debolezza di Obama»: «Con un presidente americano diverso, i turchi, gli egiziani e i palestinesi sarebbero rimasti al loro posto».


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