by Sergio Segio | 9 Settembre 2011 7:29
MILANO – Una “zona grigia” di 1,27 euro. Se c’è, è qui che potrebbe annidarsi la tangente che il gruppo Gavio avrebbe pagato all’allora presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Perché è questa la differenza fra il prezzo massimo per azione che i consulenti della procura e gli advisor della Provincia stimarono all’epoca dell’operazione, e il prezzo che l’ente pubblico pagò per il 15% della Serravalle acquistato da Gavio.
L’obiettivo di Penati era di rilevare la quota dell’autostrada Genova-Milano in mano al gruppo Gavio per avere il controllo della società . Il prezzo pagato fu di 8,83 euro per azione, un valore giudicato spropositato da molti osservatori, e congruo dai professori Villa e Cattaneo (che redassero una perizia per la procura di Milano quando nel 2005 a seguito di vari esposti aprì un’indagine) solo se si considera parte dell’operazione anche il pacchetto di azioni già posseduto dalla Provincia, in modo che il prezzo di 8,9 euro per azioni si “spalmi” sull’intera partecipazione. Ma anche agli occhi dei periti del Tribunale, quell’acquisto a carissimo prezzo effettuato da un ente pubblico, che in regime di patto di sindacato con un altro ente pubblico (il Comune di Milano) già controllava la maggioranza della Serravalle, è parso del tutto insensato.
I 240 milioni sborsati per quel 15% hanno fatto entrare nelle casse del gruppo Gavio una plusvalenza di 179 milioni. Per anni, Gavio aveva cercato di diventare l’azionista di controllo della Serravalle, ma la litigiosità di due azionisti pubblici, il Comune guidato da Gabriele Albertini con il 18% e la Provincia (con il 37%) prima sotto il controllo di Ombretta Colli e poi sotto Penati non gli permise mai di salire oltre il 15% che già possedeva. A un certo punto, la situazione sembrò sbloccarsi quando Penati e Albertini trovarono un accordo per coordinare le forze e avviare una cessione della quota del Comune alla Provincia: non se ne fece però nulla, perché la maggioranza del sindaco si spaccò. Così la Provincia bussò alla porta di Gavio offrendo un prezzo d’oro per il suo 15%, rastrellato da altri enti pubblici a un prezzo medio di 2,9 euro.
Albertini puntò subito il dito contro l’operazione, la procura di Milano aprì un’inchiesta e ordinò la perizia ai professori Cattaneo e Villa. La Corte dei Conti, in una relazione dell’epoca, stimò in circa 80 milioni di euro il danno per lo Stato. Rilievi amministrativi che non sfociarono mai nella formalizzazione di una ipotesi di reato. Anche perché all’epoca mancavano le testimonianze dirette sull’ipotesi che quel prezzo inglobasse una tangente alla politica. Il dubbio, mai accantonato dagli inquirenti, è diventato concreto solo lo scorso anno, quando l’imprenditore Piero Di Caterina, sull’orlo del fallimento e incappato in un’inchiesta sull’area Falck dei pm milanesi, è andato in procura per raccontare le confidenze fatte da Antonino Princiotta, ex segretario generale della Provincia. «Mi disse – mette a verbale Di Caterina – che stavano trattando l’importo che sarebbe stato retrocesso a Penati e Vimercati (capo di gabinetto del primo, ndr). Un importo per milioni di euro che Penati avrebbe incassato a Montecarlo, Dubai e in Sud Africa», soldi che sarebbero stati portati all’estero dall’architetto Sarno. Una parte della plusvalenza, invece, secondo l’accusa, sarebbe stata dirottata nelle tasche di Di Caterina, circa 2 milioni, attraverso una caparra per un affare immobiliare mai andato in porto. L’obiettivo era di far tacere Di Caterina che, dopo essere stato per sua stessa ammissione uno dei finanziatori occulti delle campagne elettorali del Pd a Milano, era ormai in rotta con Penati.
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