La legge-lampo del Cavaliere “In un mese voglio il bavaglio per la stampa e i giudici”

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«Stavolta una mano, almeno a Bari, ce la sta dando il procuratore Laudati. Ma non andrà  sempre così, come dimostra il massacro di Napoli. Sulle intercettazioni, ancora una volta, Napolitano mi ha fermato, ma io vi dico che entro un mese farò approvare la nuova legge»
È guerresca la voce di Berlusconi quando, con gli Alfano, i Verdini, i Ghedini, annuncia l’offensiva d’autunno. Sul suo tavolo, a palazzo Grazioli, c’è ancora in bella vista il testo del decreto che, appena 24 ore prima, ha avuto perfino l’ardire di mandare al Quirinale. Creando lì disappunto e fastidio profondissimi. L’ora di pranzo, l’incontro col capo dello Stato terminato da neppure mezz’ora. Ed ecco i motociclisti partire alla volta del Colle con il provvedimento urgente che il Cavaliere vorrebbe licenziare in serata nel consiglio dei ministri. Napolitano gli ha già  detto che non lo firma. Ma lui intigna. Tipico dell’uomo. Passa un’ora, ma il silenzio del Quirinale è più eloquente di qualsiasi replica.
È in ansia per quello che potrà  uscire dalla procura di Bari, le famose telefonate con Tarantini in cui parla pure della Merkel. Ma c’è chi, solerte, lo rassicura. «Stai tranquillo – gli dicono- quel procuratore è amico nostro. Vedrai che alla fine da lì non esce niente di catastrofico, né un’incriminazione per favoreggiamento nella prostituzione, né le tue telefonate imbarazzanti». Lui non si tranquillizza. Vuole subito la famosa legge bavaglio, quella che impedisce ai giornalisti di pubblicare subito gli atti di un processo e “silenzia” del tutto i brogliacci delle conversazioni. Nella legge alla Camera, pur frutto di un compromesso con Fini e la Bongiorno, le intercettazioni non si salvano. Le trascrizioni potranno diventare pubbliche solo durante il processo. Questo c’era scritto nel decreto su cui Berlusconi ha tentato di forzare la mano.
Ci dorme sopra. Ma si sveglia con lo stesso chiodo fisso. E parte la parola d’ordine in tutto il mondo berlusconiano. Non a caso anche il direttore del Tg1 Minzolini s’impegna nel solito editoriale salva-Silvio. Arriva a paragonare l’urgenza della manovra con la stessa urgenza di cambiare le norme sugli ascolti. Per tutta la giornata ha dato ordini precisi a Cicchitto e Quagliariello. «Non dobbiamo perdere questo treno. Abbiamo pure la copertura di Napolitano che ha detto di accelerare la legge. Noi lo prendiamo in parola. Per fine ottobre la legge deve stare in Gazzetta. Non voglio più stare in ansia come in questi giorni».
Perché ha paura davvero Berlusconi. Terrore che a Bari il procuratore Laudati lo “tradisca”. Per carità , i suoi non fanno che rassicurarlo. Ma una svista, anche piccola, può capitare. Per tutto il giorno segue le agenzie. Convinto che qualche brandello di telefonata alla fine esca. Invece niente. Gli dicono i suoi: «Hai visto? Ti devi fidare. Quella situazione è sotto controllo». In effetti il procuratore, arrivato a Bari direttamente dall’ufficio accanto a quello dell’ex Guardasigilli Alfano, il suo bel lavoro pare che lo abbia fatto. Centomila intercettazioni aveva raccolto l’ex pm Pino Scelsi, il primo titolare del caso escort che, esasperato dai metodi di Laudati, ha preferito andarsene alla procura generale.
Di quelle centomila che resta ora nelle carte depositate? Solo dei “riassunti”. Uno zelo che anticipa e va perfino oltre l’ormai prossima legge bavaglio. Perché lì è scritto che il “riassunto” dovranno farlo i giornalisti, ma negli atti le trascrizioni devono esserci. Invece a Bari il “riassunto” l’avrebbero fatto direttamente i pm. Chissà  se gli avvocati saranno contenti. Chissà  se il diritto alla difesa sarà  ugualmente tutelato. Chissà  se quei “riassunti” non finiscono per sbianchettare qualcuna delle frasi di Berlusconi che lo hanno spinto a dire a Napolitano: «Lo sa, presidente, che se esce questa roba non ne vanno di mezzo io e il governo, ma tutto il Paese?».
E invece niente. Gli atti opacizzano le responsabilità  del premier. Nel centrodestra arriva perfino a circolare la voce, seccamente smentita dal Quirinale, che consiglieri molto vicini al presidente siano intervenuti con i pm di Bari per chiedere se l’Italia, dopo l’uscita di queste intercettazioni, potrebbe rischiare una clamorosa rottura con paesi amici. Per adesso un fatto è certo. Le carte ritardano. Rinvio su rinvio. Quei brogliacci sono rimasti chiusi nel cassetto di Laudati dal 23 giugno, giorno in cui la Gdf ha consegnato il rapporto. Poi le vacanze. Ora si aspetta oltre. Niente file o chiavette, solo copie cartacee. Pare una singolare strategia per dare tempo al premier. Se avesse fatto il decreto, un buio tombale sarebbe caduto sull’inchiesta.
È il buio che, se l’accelerazione di Berlusconi andrà  a buon fine, cadrà  su tutte le indagini italiane. Lui, mai come stavolta, è deciso ad andare fino in fondo. «Mi hanno intercettato infischiandosene dell’immunità . Centomila registrazioni, puntualmente sputtanate sui giornali. Alla fine chi si vuole rinviare a giudizio? Berlusconi, non certo i pm che passano le carte». Parla così dice il Cavaliere. Che, accompagnando alla porta i suoi interlocutori, chiude così: «Ha detto bene “Minzo”, le intercettazioni urgenti e sacrosante come la manovra. Sarà  il mio slogan del prossimo mese».


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