La grande lezione di Leopardi dominare la natura è un’illusione
Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è quello che Ernst Bloch definì ‘principio-speranza’. Pur lontano e critico verso le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro. La verità più profonda dell’uomo è incapsulata nel momento del ‘non-ancora’, in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l’essere umano è capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un’esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l’essere in direzione del divenire.
Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad attrarre il pensiero contemporaneo è il ‘principio-disperazione’ – spinto all’estremo da Gà¼nther Anders nel suo libro sull’uomo ‘antiquato’, perché sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ‘dislivello prometeico’ tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata del suo potere produttivo, l’uomo si scopre esposto alla possibilità senza ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma la sua diagnosi coinvolge l’intera esperienza dell’homo technologicus. Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell’inarrestabile sconfinamento della tecnica nell’orizzonte, sempre più devastato, della natura.
Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura non soltanto ha perso la propria aurea magica, l’antico statuto di creazione divina che ne assicurava l’intangibilità da parte dell’uomo, ma è interamente affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là anche delle pretese prometeiche dell’homo faber – teorizzate da Bacone o Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificiale i suoi prodotti – compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su colui che l’ha messo in opera.
Rispetto a tale analisi, tutt’altro che infondata, va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata ‘ipotesi Gaia’ (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di continuo l’equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di mutamenti strutturali. E’ perciò che, dopo l’era glaciale, la temperatura della terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del sole sia notevolmente aumentato. E’ vero che, secondo la stessa teoria, l’attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia – già a partire dallo sviluppo dell’agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste con i campi di coltivazione e l’allevamento di animali, ha modificato il metabolismo terrestre. Ma non è detto che l’equilibrio del sistema non possa essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall’effetto serra che abbiamo noi stessi determinato.
Naturalmente ci muoviamo in un campo di ipotesi tutt’altro che certe – e anzi contestate da altri studiosi. Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt’altro che chiusa. Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta, ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare?
Ciò che possiamo fare – sospesi come siamo tra il ‘principio-speranza’ e il ‘principio-disperazione’ – è attivare quell’atteggiamento che Hans Jonas ha chiamato ‘principio-responsabilità ‘, sforzandoci di passare da un’etica antropocentrica ad un’etica globale che associ la cura dell’uomo a quella degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei nostri problemi.
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