La fragile intesa sul «muro» anti contagio

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WASHINGTON – «Direi un pareggio. Un pareggio dell’irresponsabilità » tra Stati Uniti ed Europa. Parola di Paul Volcker. L’ex capo della Federal Reserve (ed ex consigliere di Obama) risponde ridacchiando, mentre consuma una rapido «breakfast» nella caffetteria del Grand Hyatt. La domanda era se l’ha fatta più grossa l’America consentendo un boom dei mutui subprime che ha messo alle corde banche e sistema finanziario, o l’Europa della moneta unica che ha stabilito la regola del «rischio zero» per le emissioni di titoli pubblici dei Paesi dell’euro. Lasciando ora gli istituti di credito vulnerabili davanti alla crisi del debito sovrano di vari Stati dell’Unione.

Dai suoi due metri d’altezza e col distacco del «grande vecchio», Volcker osserva l’andirivieni di ministri e funzionari europei che, arrivati a Washington per le riunioni del Fondo Monetario, hanno speso tutto il weekend – incalzati dal Tesoro Usa, dai cinesi e dai maggiori operatori del mercato finanziario – a replicare alle critiche con controaccuse, ma anche a cercare soluzioni praticabili a vecchie e nuove emergenze: dalla Grecia alle banche (soprattutto francesi) vulnerabili al «rischio contagio» del debito Ue.

Lui, nel frattempo, si è limitato a celebrare la carriera di Jean Claude Trichet, venerdì sera, in un ricevimento oceanico in onore del presidente uscente della Bce. Volcker che per anni, prima della crisi del 2008, aveva messo in guardia l’America «drogata» di finanza facile (ma non l’Europa), spiega di aver voluto onorare un uomo che, come lui, ha sempre creduto nelle regole e «non si è mai fatto affascinare dall’ingegneria finanziaria». Ma sull’ipotesi di intesa tra gli europei per creare un «firewall», un muro finanziario per mettere al riparo Italia e Spagna dal rischio di «effetto Grecia» (salvando così anche le banche più esposte), non dice nulla. «Accordo? C’è un accordo? Io non l’ho visto. Lei sì?»

In effetti della possibile intesa parlano in tanti, ma i termini sono sfuggenti. Alcuni sostengono che una proposta sufficientemente condivisa – dopo le caute aperture del ministro tedesco Schà¤uble – c’è, ma non può essere resa pubblica fino a quando non verrà  ratificato il passaggio precedente di questo percorso di salvataggio: la ratifica dell’accordo europeo del 21 luglio che verrà  approvato dal Bundestag di Berlino giovedì prossimo. Un atto che deve ancora essere votato da altri 10 dei 17 Paesi dell’eurozona.

Ma anche i termini dell’accordo che vengono riferiti riservatamente (con l’eccezione del Commissario europeo Olli Rehn che ne ha parlato in modo esplicito), si sono fatti meno chiari col passare delle ore. I fatti più positivi maturati a Washington, gli unici risultati al momento certi, sono due. Intanto la presa d’atto da parte delle autorità  di tutti i Paesi europei della gravità  della situazione e della necessità  di intervenire al più presto con strumenti straordinari. In secondo luogo il parziale superamento delle resistenze della Germania che rimane contraria a curare il debito con altro debito (il «non salvi l’alcolizzato con l’alcol» scandito da Schà¤uble), ma capisce che c’è un’emergenza banche e che, pur di non aprire la strada agli Eurobond, si dice disposta ad autorizzare un uso più ampio dell’Efsf, il fondo «salva stati», che dovrebbe moltiplicare le sue risorse (da mettere poi a disposizione dei partner) utilizzando un meccanismo di leva finanziaria.

Qui si fermano le certezze. Sabato diverse fonti, anche della Bce, parlavano della creazione di un nuovo strumento esterno allo «European Financial Stability Facility» che riceverebbe dal Fondo una dotazione di 200 miliardi di euro (ma c’è chi parla di 300) da moltiplicare poi per cinque (o anche per un multiplo maggiore, fino a 10) con un effetto leva affidato alla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Ma già  ieri sono emersi dubbi su questa soluzione. Ad esempio quelli del Fondo Monetario per il quale l’Efsf non basta: ci vuole anche un intervento massiccio della Banca centrale europea. Lo dice il responsabile per l’Europa del Fmi, Antonio Borges, ma anche il direttore generale Christine Lagarde che, però, stavolta, precisa di esprimere un giudizio personale.

Cautela comprensibile: i tedeschi sono disposti a collaborare al dispiegamento di un grande muro finanziario a protezione delle banche e dei Paesi più a rischio a patto che la Bce venga lasciata fuori. Schà¤uble l’ha detto chiaramente.

Ma al di là  del problema politico, ci sono difficoltà  di tipo normativo: il Fondo «salvastati» non può finanziare entità  diverse dai governi. Difficile, quindi, passare per la Bei per realizzare l’effetto-leva. Ma anche la Bce ha impedimenti regolamentari. Resta la possibilità  che questi 2-300 miliardi vadano direttamente alle banche. Le quali, usandoli come una polizza assicurativa, potrebbero emettere fino a 1500 miliardi di euro di debito, con la garanzia di una copertura di eventuali perdite fino al 20%. Ma l’Efsf non può prestare direttamente nemmeno alle banche. Forse lo potrà  fare attraverso i governi.

Si vedrà  nei prossimi giorni. Se i parlamenti andranno avanti speditamente e se gli operatori terranno i nervi saldi. I ministri europei sperano di avere sei settimane di tempo, fino al G-20 di Cannes. Ma i mercati nei giorni scorsi hanno mostrato tutta la loro impazienza. E venerdì la tv finanziaria Cnbc ha presentato, tra le battute sarcastiche dei suoi commentatori, una tabella delle votazioni «sensibili» che si svolgeranno questa settimana in Europa: da Berlino ad Atene, ogni giorno un voto che può avere conseguenze pesanti sulle Borse.


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