La finanza africana tra Libia, Francia e futuro
Dietro l’intervento armato della NATO, fortissimamente voluto dal presidente Sarkozy, non c’erano ragioni umanitarie ma calcoli politici e soprattutto economici: bisognava fermare Gheddafi perché stava contribuendo a suon di miliardi ad alcuni progetti che avrebbero consentito all’Africa di liberarsi, almeno un poco, dell’ingerenza occidentale e delle catene costituite dai debiti contratti con le organizzazioni internazionali. Gheddafi era uno dei finanziatori di tre grandi progetti economico-politici lanciati alla fine del 2010: la Banca africana di investimento, con sede a Sirte in Libia; il Fondo Monetario africano (con capitale iniziale di 42 miliardi di dollari), con sede a Yaoundè in Camerun; la Banca Centrale africana, con sede ad Abuja in Nigeria, primo passo per la creazione di una moneta unica capace di scalzare il Franco CFA (cioè dei paesi dell’Africa francofona), valuta ora controllata da Parigi. L’articolo di Pougala, documentato e credibile, ha fatto subito il giro della Rete rimbalzando su blog, siti di informazione alternativa, riviste online come Nigrizia, agenzie di stampa (non quelle più quotate) e generando un grande dibattito. Gheddafi benefattore? Questa notizia potrebbe far sobbalzare. No, Gheddafi resta il sanguinario tiranno che è. Ma anche date, fatti e numeri restano.
Lo scorso dicembre si sono riuniti a Yaoundè, capitale del Camerun, i ministri delle finanze africani per gettare le basi del Fondo Monetario africano, che “avrà il compito di rendere autonomo finanziariamente il continente, promuovendo crescita e sviluppo commerciale”, come descritto dall’analista del Sole24ore Riccardo Barlaam. Il capitale raccolto dalle donazioni degli Stati africani ammontava a 42 miliardi di dollari così suddivisi: 14,8 dall’Algeria; 9 dalla Libia (i due paesi coprono il 65 % del capitale); 5 dalla Nigeria; 3 rispettivamente dall’Egitto e dal Sudafrica. A fine gennaio un vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana avevano dato il via definitivo al progetto. Ora i 9 miliardi libici sono svaniti. Meglio fanno parte di quei 37 miliardi di dollari di Gheddafi “congelati” dai soli Stati Uniti (il Wall Street Journal parla di altri 20 dall’Inghilterra e 10 dalla Germania; l’amministratore delegato dell’Eni Scaroni dice che i miliardi sono 140; altre fonti addirittura di 165) e che adesso dovrebbero essere girati ai nuovi padroni di Tripoli. Che cosa ne faranno? Intanto i primi soldi restituiti serviranno per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e poi per cominciare la ricostruzione, partendo dalle infrastrutture petrolifere. I fondi scongelati dopo la conferenza sulla Libia, tenutasi a Parigi nei giorni scorsi, ammontano a 14 miliardi di dollari che ovviamente saranno impiegati per riaccendere la pompe del gas e del petrolio. L’FMA può attendere. Anche perché, secondo quanto riportato da tutti i siti economici internazionali e posto in evidenza dai blogger, addirittura il 19 marzo, quando ancora gli insorti stavano nel fortino di Bengasi, è stata creata la “Central Bank of Libya”, con lo scopo appunto di gestire i fondi congelati: ma si apprende che chi lo farà concretamente sarà l’istituto finanziario britannico HSBC.
L’idea del Fondo monetario africano non è però morta e nei vari incontri dell’Unione africana che si sono tenuti quest’anno sembra che la vicenda libica non desti particolare preoccupazione, anche se pare che la partenza ufficiale del Fondo sia slittata alla primavera prossima. Eppure queste istituzioni economico-finanziarie sovranazionali sarebbero l’unica strada per togliere dal collo dell’Africa il cappio del debito estero contratto con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale che hanno prestato fiumi di denaro a dittatori corrotti e compiacenti che promettevano “riforme” di stampo liberista. È ormai opinione comune che il danno di queste politiche sia stato incalcolabile per l’Africa. Anche il piccolo stato del Malawi, portato per anni come esempio della bontà dell’iperliberismo, ora sta attraversando una grave crisi sociale.
Di monete uniche africane se ne parla da anni, almeno dal 2004. Recentemente si è parlato della possibilità di introdurre lo “scellino dell’Africa orientale” che andrebbe a cementare la comunità economica che raggruppa Kenya, Tanzania, Ruanda, Burundi e Uganda. Una partita diversa si gioca nei paesi dell’Africa occidentale; l’obiettivo è slegarsi dalla Francia che controlla l’economia (e quindi i regimi) di quegli Stati: impressiona pensare che la valuta utilizzata nelle steppe sub sahariane e nelle foreste equatoriali sia ancora coniata nella zecca di Clermont-Ferrand! Qui veniamo alla politica post colonialista francese che da decenni, a prescindere dall’inquilino dell’Eliseo, fa il bello e il cattivo tempo in Africa. Per citare due eventi recenti: nel 2008 in Ciad Parigi si è comportata all’opposto rispetto alla Libia; i ribelli stavano per conquistare la capitale N’Djamena e cacciare il presidente Dèby, al potere dal 1990, quando la Legione straniera francese intervenne in forze per difendere il regime amico. E poi il caso più intricato, sanguinoso ed eclatante della “guerra civile” in Costa d’Avorio, nella primavera scorsa, dove la ricostruzione dei media occidentali (che vedono l’ex presidente Gbagbo criminale di guerra ora al tribunale dell’Aia) è smentita da analisi indipendenti. Fatto sta che il nuovo presidente ivoriano Ouattara è un amico personale di Chirac e Sarkozy, nonché ex dirigente del Fondo monetario internazionale.
Insomma, ancora troppe interferenze affinché l’Africa possa immaginarsi come un continente unito, coeso con una sola rappresentanza politica (l’Unione Africana), una sola moneta (l’afro), una sola polizia sovranazionale su base continentale come previsto dall’art. 43 dell’ONU al fine di prevenire i conflitti; addirittura una sola lingua comune come il Kiswahili che è già parlato dai mercanti sia dell’area francofona che anglofona. Certo. Obiettivi di lunghissimo orizzonte che necessitano di obiettivi intermedi come lo scellino o il Comesa. Ma sin tanto che le tre aree (Maghreb, area francofona ed anglofona) non riusciranno a sintetizzare “politiche comuni” Cina e India da un lato e l’occidente dall’altro occuperanno lo spazio lasciato dal “dividi et impera” di coloniale memoria. E finché i ministri africani andranno alla corte di Sarkozy ed i sotto-sottosegretari all’Unione Africana c’è ben poco da sperare. Non verrà irrigato il deserto con le acque degli oceani se si starà ancor per molto con il cappello in mano.
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