La fantasia è la voce dei migranti

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  «In un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani emigrati, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera, per un intero isolato… ». Così scriveva, alla fine dell’Ottocento, nel libro How the Other Half Lives («Così vive l’altra metà ») il grande reporter della «New York Tribune» Jacob Riis. (…) «Altri tempi!», dicono i razzisti che rifiutano ogni parallelo con l’immigrazione di oggi in Italia. Certo. L’idea che si trattasse di un lontano Medioevo imparagonabile con il mondo di oggi, però, è una sciocchezza dovuta solo all’ignoranza. Quando Riis scrive i suoi reportage, esistono a settant’anni il treno e il telegrafo, da una quarantina il motore a scoppio e il fax, da una trentina il sommergibile e la metropolitana di Londra, da una ventina la luce elettrica.
Per capire la distanza abissale tra «quella Italia» e «quell’America» occorre mettere a confronto due documenti del 1882: la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Stefano Jacini sulla povertà  del mondo contadino e un reportage su New York di Dario Papa pubblicato dal «Corriere della Sera». La prima denuncia la disperazione di un mondo con centinaia di migliaia di tuguri «ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame» e si descrive il degrado igienico di province come quella di Treviso, oggi marcata da una forte presenza di razzisti: «Ogni sorta d’immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo sterco degli animali a quello dell’uomo, è raccolta nelle vie e intorno alle case, e vi è quasi rispettosamente conservata; in qualche sito si giunge fino a spargere ad arte del fogliame oppure dei ricci di castagne perché, parte coll’aiuto dell’acqua piovana e parte con quello dei passanti, il materiale si maceri, fermenti, e si converta poi in letame. Presso la generalità  dei contadini i concimi vengono dalle stalle non trasportati nei campi o in un ben acconcio letamaio distante dall’abitato, ma si raccolgono o nei cortili o nelle adiacenze delle case, ed ivi si lasciano a fermentare finché si presenti la occasione di portarli all’aperto per gli usi agricoli». (…) Il 26 gennaio dello stesso 1882, mentre tanta parte del nostro Paese è ancora affondata nel Medioevo, Dario Papa così descrive il Ponte di Brooklyn: «Il più meraviglioso ponte del mondo (…) unisce Brooklyn con Nuova York a un dipresso come quello di ferro che unisce Buda con Pest: ma io credo sia lungo più del doppio e mi pare basterebbe per traversare due volte il Po nei punti della sua maggiore larghezza: e non ha ombra di pila o puntello di sorta: è tutto fatto da due immense catene, che ti pajono — là  in alto — leggiere come una piuma. Il forte dei sostegni, d’una grandiosità  solamente paragonabile alle più colossali fra le opere umane, è sulle rive, d’onde — dentro Nuova York — il ponte si prolunga per un pajo di chilometri passando sopra i tetti delle case. Le quali così hanno: sovra la testa la ferrovia che viene da Brooklyn; ai lati e a livello del primo piano la ferrovia “elevata”, cioè tutta fabbricata in aria, che circola dentro tutta quanta la città ; ai piedi i trams, gli omnibus e tutto il resto del movimento cittadino; e sotto i piedi… avranno tra poco un’altra ferrovia che circolerà  sotto terra. Se questo non è dormire fra due guanciali, è per lo meno dormire fra quattro ferrovie».
Da noi i contadini tenevano il letame in casa perché scaldava e aiutava a passare l’inverno, dall’altra parte dell’oceano il ponte di Brooklyn aveva quattro piani di ferrovie. Qual è la differenza tra l’abisso che separa oggi il Burkina Faso dalla Lombardia e quello che separava il Veneto (per non dire del Meridione) dal New Jersey? Dov’è questa «immensa» differenza tra i nostri nonni e «loro»?
Immaginiamo la risposta: «I nostri nonni non erano delinquenti!». Andiamo allora a rileggere Un italiano in America, scritto nel 1894 dal grande Adolfo Rossi, originario di Lendinara, in provincia di Rovigo: «Sotto i cortili interni dei tenement-houses (casermoni) più ributtanti vi sono certe cantine (basements) scure e mefitiche, illuminate da una lampada a petrolio dove si balla e si beve la birra a buon mercato. Se non si è del quartiere è pericoloso avventurarsi senza essere accompagnati da un police-man in quelle catacombe del vizio e della abbiezione».
Immaginiamo la nuova obiezione: «Quelli erano terroni, che arrivavano da terre piene di delinquenti!». Allora andiamo a prendere il libro O soldi o vita di Luigi Piva. Dove si spiega che le due sezioni veneta e lombarda del Tribunale statario asburgico «avevano istruito 3.400 processi e dal giugno 1850 al giugno 1853 le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova erano state colpite da 1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite e 735 commutate in detenzione per un periodo medio di 15-20 anni di carcere duro». Per cosa? Rapine in casa. Soprattutto nella Bassa padovana, nel rodigino, nel mantovano: 1.144 condanne a morte! Tra polentoni! (…) Ma torniamo ai nostri emigranti in America o in Europa: «È diffusissima in Germania l’opinione che la criminalità  degli immigrati italiani sia di gran lunga superiore a quella dei nazionali e degli immigrati di altre nazionalità », scrive alla vigilia della Prima guerra mondiale l’ispettore regio per l’emigrazione Giacomo Pertile. (…) Giuseppe De Michelis, sul «Bollettino dell’emigrazione» edito dal ministero degli Esteri, confermava: «Tutti parlano della grande criminalità  fra i nostri emigranti come di un fatto acquisito. I giornali, appena viene commesso un delitto, un furto, un’azione riprovevole, cercano l’italiano». Solo il frutto di una campagna calunniosa? «Purtroppo, sovente, è la verità », sospirava l’autore dell’inchiesta.
Occorre rileggerle, queste parole di tanti anni fa, per inquadrare l’Hotel House nel suo corretto contesto. Sia chiaro, il fatto che anche noi abbiamo creato problemi agli altri non vuol dire affatto che dobbiamo rassegnarci a una sorta di nemesi storica. Proprio per niente. Là  dove ci sono i reati vanno perseguiti con durezza e chi li commette deve pagarli a caro prezzo. Tanto più che ogni delinquente, e ce ne sono, contribuisce a rassodare le ostilità  e i pregiudizi razzisti che poi ricadono sull’intera comunità  degli immigrati. Ma come gli altri hanno dovuto mostrare insieme fermezza ma anche un po’ di pazienza verso i nostri nonni, così dobbiamo fare noi: fermezza e pazienza. Accompagnate dall’idea che l’immigrazione, oltre a creare problemi, contribuisce ad arricchire la nostra società . Economicamente, se è vero che ormai l’11,2 per cento del nostro Pil dipende dai lavoratori stranieri. Ma anche culturalmente.
Lo dimostra il volume Babel Hotel, curato da Ramona Parenzan. Dove questa ricchezza di poesie e racconti e canzoni, frutto di una straordinaria molteplicità  di etnie e culture, testimonia l’unica vera, grande, differenza (a parte quella dell’estremismo religioso che tocca una minoranza del mondo islamico) tra i nostri nonni emigrati e i «nuovi italiani». Prendiamo ad esempio uno studio sulle liste passeggeri dei transatlantici in arrivo in America nel 1910 condotto da Ira A. Glazier e Robert Kleiner. Su due navi a caso che attraccarono a New York nel 1910, gli immigrati analfabeti sbarcati dall’italiana «Madonna» erano il 71 per cento, quelli provenienti dall’impero zarista e scesi dalla «Lithuania» il 49 per cento: 22 punti in meno. (…) Spiega nel febbraio 2011 l’Indagine conoscitiva sulla situazione dell’Hotel House di Porto Recanati, condotta da un gruppo di docenti dell’Università  di Macerata coordinati da Angelo Ventrone, che l’Hotel House, a dispetto di certi reportage razzisti che lo descrivono come un ghetto abitato da loschi figuri sporchi, portati a delinquere e magari un po’ scimmieschi, ospita immigrati che sono per il 55,2 per cento in possesso di un diploma o di una laurea. Una percentuale superiore di circa 12 punti a quella degli italiani diplomati, che sono solo 33 su 100 e collocano l’Italia al venticinquesimo posto dei Paesi Ocse.
Tutta gente, dice la ricerca, che sta lì nel 22,5 per cento dei casi per il «basso costo» delle abitazioni (gli appartamenti, in quell’alveare che solo la perversione urbanistica degli anni Sessanta poteva concepire, sono in vendita a partire da 30 mila euro…), nel 18,4 per cento per «mancanza di soluzioni abitative alternative», nel 36,7 per la «presenza di parenti/conoscenti» o perché il posto è «comodo per la posizione rispetto al lavoro». Nessuno è lì, ovvio, perché «gli piace». Certo, spiega la ricerca, «il nodo problematico maggiore è quello della criminalità », «la grande maggioranza del campione (81 per cento) rileva la presenza di sacche di criminalità  presso l’Hotel House» e «la maggioranza ha individuato nello spaccio di sostanze stupefacenti la problematica più grave e prevalente; anche i danneggiamenti, le aggressioni, i furti e le rapine vengono citati in modo ricorrente dagli intervistati, anche se con minore evidenza rispetto allo spaccio». Le prime vittime, infatti, sono proprio le persone perbene che vivono all’Hotel House le quali, stando al campione, nella larga maggioranza (73,8 per cento) lavorano regolarmente. Di più, il 70 per cento «dei residenti ritiene la vivibilità  dell’Hotel House come minimo mediocre se non pessima», soprattutto per «il degrado dell’edificio e la scarsa manutenzione degli spazi comuni» e più ancora per «la scarsa sicurezza per motivi di violenza e criminalità ». Problemi che vanno sradicati dalla cittadella multietnica non solo per la serenità  dei marchigiani, che ne hanno assolutamente diritto, ma anche per quella degli stessi abitanti dell’alveare, che vanno sottratti alla dimensione del «ghetto» che tanto ha pesato sul destino dei nostri nonni.


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