La barzelletta di Sacconi ministro che fa pena

by Sergio Segio | 9 Settembre 2011 7:55

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Lui, Sacconi, probabilmente si aspettava un applauso. Raffaele Bonanni, che gli sedeva accanto, si è grattato la testa. Il video non mostra le facce del pubblico, composto di giovani Pdl.
Ho guardato il video e ascoltato la barzelletta, poi l’ho riguardato, poi mi sono detto che bisognava cercare di capire. In fondo, io sono un uomo come Sacconi. Cioè, non esageriamo: io, come Sacconi, sono un uomo. Ecco. È chiaro che se non fosse un uomo, non gli sarebbe passato per la testa di dire quella barzelletta. Però altri uomini si sarebbero fatti piuttosto tagliare la lingua, sicché la questione non può finire qui. Lui ha creduto di cautelarsi premettendo che il suo apologo sarebbe stato «forse un po’ blasfemo»: bigotto com’è, pensava che bastasse, dal momento che scherzare coi santi – con le sante – è l’essenza del bigottismo, come insegna la lunga lezione di Andreotti.
Dunque pensava che la cosa si riducesse alle sole suore, e le suore non sono donne, sono monache: se non per quel dettaglio, che anche loro sono stuprate solo perché ne hanno una gran voglia. Non ha riso nemmeno lui, Sacconi: ha continuato con l’enfasi impressionante che mette in ogni esternazione, che voglia rottamare lo Statuto dei diritti dei lavoratori o chiedere che ora è. «Il sindacato può dire di no», ha concluso. La sua morale (chissà  quanto se l’era preparata) è questa: che se un intrusissimo emendamento alla manovra dà  ai sindacati la possibilità  di concorrere ad autorizzare un licenziamento, il sindacato può dire di no, esattamente come la monaca obiettrice della barzelletta.
Non deva averla seguita fino in fondo, la sua storiella, perché se ne ricava che la Cgil, “capace solo di dire dei No”, è la monaca casta, e le altre confederazioni, care al ministro, non vedono l’ora di essere stuprate. A parte questa orrenda e inavvertita conclusione, quello che soprattutto a Sacconi è sfuggito – rivelandone il mistero, perché costui era finora misterioso – è che la sua barzelletta non era blasfema perché toccava le suore e le celle e i conventi, ma era infame perché toccava le donne e le case e le strade. Un riflesso così volgarmente maschilista si sarebbe del resto iscritto dentro la cultura governativa e il catalogo sterminato delle sue barzellette e giochi di mano, senza l’ulteriore coincidenza, la più rivelatrice di tutte, della quale Sacconi non s’è accorto nemmeno alla lontana, mostrando per una volta che la psicoanalisi elementare ha ragione: e cioè che a capo della Cgil c’è una signora. Sicché un diavoletto lo faceva sbracciare scompostamente e gli faceva tortuosamente dire che Susanna Camusso dice No per dire Sì, e non vede l’ora eccetera. Il destino per giunta gli ha messo di fronte proprio un nome casto e minacciato per eccellenza; e qualche volta, benché la signora segretaria generale della Cgil sappia il fatto suo e nostro, si ha la sensazione che i calabroni le ronzino attorno come i vecchioni al bagno di Susanna.
Non è la prima volta che mi interrogo su Sacconi. Lui era socialista, e “di sinistra”: nome già  onorato. Non è un vecchione, benché sia entrato in Parlamento 32 anni fa. Dopo che ci rientrò con Berlusconi, tutto quello che c’era di meglio, simbolicamente e di fatto, nell’eredità  socialista italiana, diventò il bersaglio della sua rivalsa: dallo Statuto dei diritti dei lavoratori da mutare in dei lavori – dei lavoretti, insomma – alla Costituzione fondata sul lavoro. La laicità  – vanto peculiare di radicali socialisti azionisti liberali e repubblicani – è diventata la sua bestia nera, dalle circolari ricattatorie contro medici e amministratori nella tragedia degli Englaro all’oltranza sull’idratazione forzata di tutti noi. In fatto di fanatismo clericale, ha voluto lasciarsi indietro colleghe già  stupefacenti come Eugenia Roccella (cui la barzelletta, promossa a “metafora”, è piaciuta, mannaggia). Di qualunque cosa parli, è ispirato come un hodjatoleslam – come quando racconta la barzelletta, guardate. Come se avesse preso roba molto forte: il rancore è fortissimo. Ha promosso il caso “unico, irripetibile”, di Pomigliano in modello erga omnes.
Ha infilato di prepotenza l’articolo 8 dentro la manovra. Dice che ce l’ha chiesto l’Europa. Chissà  se a Bruxelles hanno tradotto la barzelletta, e che risate. Appena prima, aveva fatto passare in consiglio dei ministri (poi ha un po’ smentito, lì sono tutti smentitori) la bravata che aboliva il riscatto degli anni di servizio militare e università : si sono scusati dicendo che pensavano che riguardasse solo 3 o 4 mila persone, e non 600 mila e passa: non male, come contabilità , e anche moralmente. Come se rapinarne tre invece di seicento fosse ragionevole. Ho trovato in rete un intervento, enfatico come questo, in cui Sacconi grida sbracciandosi: «Noi vogliamo governare! Noi vogliamo governare! Abbiamo un forte mandato a questo! Abbiamo un forte mandato a questo!». Del puro Brunetta, solo che Sacconi abbassa la mano col microfono e, con un tono improvvisamente normale, bofonchia: “Vaffanculo”.
Ogni volta che guardo e ascolto Sacconi, mi dico che lui scherza. Però questa volta, quando ha scherzato sulle suore stuprate e il convento della Cgil, ho capito che no. Faceva sul serio. Ho guardato e sentito anche Rita Giaretta, che è una donna e fa la suora e combatte lo sfruttamento sessuale. A febbraio, alla manifestazione delle donne, aveva detto: «Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione». Ora, col suo bell’accento di vicentina a Caserta, ha detto che il ministro le fa «un po’ pena».

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