Islanda, la recessione è un crimine alla sbarra il premier del default
REYKJAVIK. Il polverone sollevato dall’impressionante disastro finanziario islandese – che ha comportato il fallimento delle tre banche più grandi e quindi il crollo della sua economia nell’autunno del 2008 – si stava appena diradando e già il Paese si è messo alla ricerca di qualcuno sul quale addossare le responsabilità dell’accaduto. Di sicuro le banche, certo. Un procuratore speciale nominato dal governo ha fatto i nomi di oltre 200 funzionari sospetti in un caso che, come pare inevitabile, sfocerà in un’imputazione. E poi i politici, naturalmente: gli elettori hanno espresso il loro sdegno nei confronti dell’Independence Party al governo da tempo allontanandolo dal potere nelle elezioni del 2009. Ma il desiderio di fare giustizia – e forse anche quello di vendicarsi – è forte e complesso e l’Islanda ha preso provvedimenti insoliti negli strani annali della crisi finanziaria mondiale: ha deciso di perseguire penalmente un personaggio politico, l’ex primo ministro Geir Haarde, perché il suo governo non è riuscito a scongiurare la catastrofe.
L’accusa formale contro Haarde, decisa da un parlamento quanto mai lacerato al proprio interno, parla di «sue violazioni commesse dal febbraio all’ottobre 2008, di proposito o per omissione o per banale disinteresse, essenzialmente contro le leggi della responsabilità ministeriale». Secondo l’accusa Haarde avrebbe dato prova di «gravi mancanze nei suoi doveri di primo ministro di fronte a un pericolo enorme che incombeva sulle istituzioni finanziarie islandesi e sulle casse dello stato». Il suo grande peccato, sintetizza Atli Gislason, dei Verdi di sinistra al parlamento e leader della commissione che ha istituito la causa contro Haarde, è essenzialmente proprio l’omissione: «Il suo errore è stato non fare niente». Se sarà giudicato colpevole da un collegio speciale di giudici, Haarde – una personalità di riferimento per il conservatore Independence Party e che ha servito come primo ministro dal giugno 2006 al febbraio 2009 – potrebbe essere condannato a due anni massimo di reclusione.
Per certi aspetti, il caso in questione è servito all’Islanda da espediente per costringere le autorità a rispondere del loro operato e voltare pagina. Se non altro, però, anche se l’economia islandese sta iniziando a dare qualche segnale di ripresa, l’accusa a Haarde ha reso la già cinica popolazione ancora più sospettosa. Da recenti sondaggi è emerso che la fiducia nel Parlamento ha toccato i minimi storici. «È in corso un cambiamento», dice Kristrun Heimisdottir, consulente del ministero degli Affari economici. «Finora prevalevano rabbia e sete di vendetta, ma adesso la gente non sa se la colpa sia davvero tutta di Geir». Il problema, a detta di Robert R. Spano, professore e rettore della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Islanda, è che legge e politica sono ormai aggrovigliate tra loro. In un’intervista ha infatti detto: «Quando si vive una situazione di forte rabbia, le decisioni che dovrebbero essere prese oggettivamente e con grande attenzione tendono a essere contaminate dalla politica e dalle emozioni».
Lunedì, nel corso di un’udienza, gli avvocati di Haarde hanno sostenuto che il caso dovrebbe essere cancellato per vari vizi procedurali, e che l’imputazione stessa è troppo vaga per rispondere ai parametri legali. Se la loro mozione non sarà accolta, e se Haarde darà fondo a tutti i ricorsi che ha a sua disposizione prima che inizi il processo, la sua causa sarà discussa all’inizio del prossimo anno da un tribunale, mai convocato prima, incaricato di occuparsi di casi che hanno a che fare con gli atti illeciti del governo.
Haarde, 60 anni, ha detto di non aver commesso reato alcuno, che gli eventi che hanno portato al crack finanziario erano troppo complessi per essere distillati in un’aggressiva azione politico-legale contro una sola persona, e ha concluso dicendosi sicuro che potrà dimostrare la propria buonafede. «A posteriori, è davvero difficile affermare che non avremmo potuto agire in modo diverso» ha detto nell’intervista. «Ma questo è un processo politico mascherato da causa penale. I miei avversari politici stanno cercando di prendersela con me, e di castigare me e il mio partito».
Perfino alcuni parlamentari che hanno espresso parere favorevole per accusare Haarde affermano di essere perplessi da come si stanno trasformando le cose. Nell’autunno scorso, una commissione parlamentare speciale che doveva svolgere indagini sul crack ha rispolverato una vecchia legge con la quale ha potuto individuare quattro persone – Haarde e tre dei suoi ministri – che potevano essere ritenuti penalmente perseguibili. Ma dopo una serie di manovre politiche che hanno scatenato una furiosa lite in Parlamento, con un voto di 33 a 30 il Parlamento ha deciso di accusare soltanto Haarde.
Jon Danielsson, esperto di Islanda presso la London School of Economics, ha detto: «È il Parlamento ad aver deciso che condanneremo una sola persona, e si dà il caso che questo unico imputato sia l’ex capo dei conservatori. Siamo davanti a un processo politico. O li accusiamo tutti o nessuno». Molti islandesi approvano questo ragionamento: «Haarder è stato uno degli artefici del crack dell’Islanda, su questo non c’è dubbio», dice Arnar Thorisson, un cineasta di 42 anni che l’altro giorno passeggiava in centro a Reykjavik. «Ma non mi basta veder accusato soltanto lui».
Se c’è un politico più colpevole di altri, secondo molti è David Oddsson, vecchio amico e mentore di Haarde, primo ministro dal 1991 al 2004. Durante il suo mandato l’Islanda privatizzò le banche, liberalizzò i regolamenti bancari, aprendo la strada a un breve periodo di prosperità , ma anche a un comportamento azzardato e in definitiva auto-distruttivo da parte delle banche. Quanto Oddsson lasciò la politica, divenne presidente della Banca centrale. Fu estromesso dalla sua carica nel 2009, ed è attualmente direttore di Morgunbladid, importante giornale islandese e sostenitore dell’Independence Party. «Lui è il re, e noi in un certo senso stiamo impiccando il principe» ha esemplificato Eirikur Bergmann, direttore del Centro per gli Studi europei all’Università Bifrost.
A prescindere da come andrà a finire, un processo non servirà granché a placare la collera degli islandesi. «Siamo lontani dal giudicare gli eventi in modo equilibrato», spiega Gunnar Helgi Kristinsson, docente di scienze politiche all’Università dell’Islanda. «Se Haarde sarà giudicato non colpevole, l’opinione pubblica lo considererà un verdetto di un sistema nel quale nessuno è tenuto a rispondere del proprio operato. Se sarà giudicato colpevole, si ritroverà a essere l’unico responsabile di una situazione che tutti sanno che non è giusto addossare soltanto a lui».
(Copyright New York Times – la Repubblica/ Traduzione
di Anna Bissanti)
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