by Sergio Segio | 8 Settembre 2011 7:01
ROMA — Il governo è appeso a un filo. Ed è vero che è così ormai dall’anno scorso, che da allora Berlusconi si è fatto beffa persino delle leggi della fisica, resistendo prima alle tempeste giudiziarie poi a quelle finanziarie. Il punto è se il Cavaliere riuscirà a resistere anche stavolta, ora che la crisi economica si va miscelando agli scandali sessuali e che è ripartito il dibattito sull’esecutivo tecnico o di larghe intese, dietro cui si cela l’inadeguatezza della politica, con una maggioranza incapace di governare e una opposizione incapace di proporsi come vincente alternativa di governo. C’è un motivo infatti se Casini continua a rigettare l’ipotesi di affidare la guida del Paese ai tecnici: «Quali tecnici? Tocca ai partiti assumersi la responsabilità delle scelte. È finito il tempo delle deleghe».
Ma ci sarà un motivo se il futuro non si è ancora trasformato in presente, se Berlusconi continua a restare a Palazzo Chigi. «La verità — dice il ministro degli Esteri Frattini — è che per un governo di larghe intese non vedo le condizioni nella maggioranza ma nemmeno nell’opposizione. E Berlusconi non teme manovre di palazzo. Il Quirinale ha fornito in questo senso garanzie: di recente il capo dello Stato si è espresso anche pubblicamente. Non siamo più ai tempi di Scalfaro, è un altro mondo. Napolitano non si presterebbe a pasticci». Tuttavia il pissi-pissi si è fatto di nuovo insistente, coinvolge settori della maggioranza, alimenta il toto-premier con nomi nuovi: così, dopo Fini e Tremonti, ora è la volta di Schifani.
Oggi come allora nel centrodestra monta un malpancismo che tiene insieme insofferenze sulla condotta politica del premier e anche sulla sua condotta privata. È da vedere se e in che modo questo movimento di «indignados» si manifesterà , se nel gruppo dei Responsabili si prepara la rottura dal Cavaliere, e soprattutto se nel Pdl è davvero in atto una raccolta di firme che segnerebbe una clamorosa e storica abiura del fondatore. Gli scricchiolii li avverte anche Verdini, «sento sbattere le ali» ammette l’uomo che per Berlusconi costruì alla Camera la maggioranza del 14 dicembre, e secondo il quale «al momento la situazione è sotto controllo, perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Il coordinatore del Pdl resta però convinto che il Cavaliere dovrebbe dar vita a un rimpasto di governo, «necessario come una trasfusione» per rivitalizzarsi: «Anche perché in Parlamento non è che ci sia gente disposta ad andare a votare». Traduzione: non è più come una volta, o Berlusconi o morte.
Dopo il varo parlamentare della manovra (e dopo la lettura delle conversazioni tra il premier e Tarantini) si capirà se l’araba fenice della politica italiana risorgerà dalle proprie ceneri. Per ora la tesi che il leader del centrodestra — per quanto debolissimo — sia al capolinea è affidata a un processo indiziario, che regge (anche) sui silenzi di Maroni, sull’idea cioè che l’uomo forte della Lega non sia disposto a concedere più nulla sull’altare del risanamento, che non accetterebbe ulteriori sforbiciate alle pensioni e agli enti locali. Resta il fatto che, quando a Cernobbio il titolare del Viminale ha parlato, davanti alle insistenze sulla necessità di un governo tecnico ha risposto no: «I governi devono essere espressione della sovranità popolare».
Allora da dove arriverebbero le insidie per il Cavaliere? Nei giorni scorsi Tremonti ha messo in guardia il premier da una sorta di «spectre internazionale», che avrebbe le sue centrali a Bruxelles e a Francoforte. Commissione europea e Bce: questi sarebbero i veri nemici di Berlusconi, secondo il ministro dell’Economia. Verdini riconosce che «l’Europa non è certo nostra amica, anche perché non ci siamo fatti amici nel mondo dei grandi burocrati». E tra quanti muoverebbero contro il capo del governo, La Russa annovera non solo «i tradizionali poteri forti, che volevano e vogliono comandare, ma ora anche i poteri grigi, i grandi speculatori, che sono più pericolosi e vogliono solo guadagnare».
Ma nessuno di questi vota la fiducia alle Camere, perciò a detta del ministro della Difesa le maggiori insidie per il governo non vengono dal fronte economico o da quello giudiziario, «semmai potrebbero venire dal voto sulla norma che dimezza il numero dei parlamentari». Secondo alcuni calcoli svolti nel Pdl, in caso di sconfitta elettorale, solo un’ottantina dei duecentocinquanta uscenti tornerebbe a Roma. Mai sottovalutare l’istinto di sopravvivenza, La Russa infatti non lo sottovaluta, e prova a scrutare il futuro: «Mi chiedessero se è immaginabile un governo retto da una maggioranza più larga di quella attuale, direi sì. Mi chiedessero se è immaginabile che Berlusconi si faccia da parte, risponderei che il tema non è all’ordine del giorno, perché Berlusconi non sarà mai di questo avviso».
Così la politica resta nel limbo. Con un Cavaliere che vede l’ombra del nemico ovunque, ma sembra vittima di se stesso e di un processo di autoaffondamento, più che di una manovra di Palazzo.
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