by Sergio Segio | 2 Settembre 2011 9:25
ROMA – «Ricordo solo che mio figlio mi diede una pacca sulla spalla. “Ciao pà !”, disse. Non ricordo altro. Solo che i vicini cercavano di togliermelo dalle mani». Piero Follesa è un reduce di Nassirya che ha aggredito il figlio quattordicenne credendosi sotto attacco. E la sua mente lo era. È il Post Traumatic Stress Disorder (PTSD), una patologia psichiatrica che colpisce soprattutto i reduci dalle missioni militari. Rispetto al trauma provocato dalle catastrofi naturali, come ad esempio un terremoto, in guerra si aggiunge l’intenzionalità : è un tuo simile a volere la tua morte.
Nelle Forze armate italiane si dovrebbero contare migliaia di storie simili a quella di Piero. In Europa, infatti, la media di PTSD tra i contingenti è del 4-5 per cento, all’interno di una stima del 10 per cento di manifestazioni minori del disturbo. Le stime crescono vistosamente negli eserciti più aggressivi, che rispondono a regole d’ingaggio diverse da quelle dei contingenti europei: maggiore è l’esposizione allo scontro e maggiore è l’esposizione allo stress. Si arriva così al 20-30 per cento negli Usa (nel 2008 i soldati colpiti da gravi disturbi psichiatrici sono stati stimati in oltre 320mila, su 1,6 milioni), si flette di poco in Canada o Israele, mentre in Gran Bretagna la Difesa dichiara un 3 per cento, subito smentita dalle cronache: quasi il 10 per cento dei detenuti nelle carceri britanniche (circa 20.000 persone) provengono dalle Forze armate, quasi tutti “dentro” per violenze (soprattutto domestiche) legate all’abuso di alcol e droghe.
Eppure le gerarchie militari italiane invece raccontano un’altra storia: su 150.000 soldati impiegati all’estero risultano solo 2/3 diagnosi l’anno su circa 20 casi segnalati. Statisticamente zero. È credibile questa “singolarità antropologica”? E come si spiega? Se è davvero così “inverosimile”, come sostengono alcuni, per quale motivo il fenomeno non emerge? Disattenzione casuale o incompetenza?
L’Esercito rivendica questo zero statistico con orgoglio: «Anche se capisco che possa sembrare inverosimile, le casistiche fornite dai colleghi sono corrette – afferma il Generale Michele Gigantino, che per 10 anni ha guidato il Dipartimento di scienze psichiatriche e neurologiche al Celio di Roma – merito di una selezione a maglie strette: passano solo i più adatti. E poi i comandanti, altro sensore: loro hanno il polso della situazione. Per questi motivi il paragone con gli altri paesi è fuorviante». «Impossibile», replica Carol Beebe Tarantelli, psicoanalista, perché, «addestramento o meno, la strutturazione della psiche occidentale è simile. Così come ci sono in Olanda, ad esempio, devono esserci anche in Italia». L’Esercito non li rileva o li nasconde, conclude.
Daniele Moretti, psichiatra, ha seguito dal 2004 a oggi 5 reduci di Nassirya, al CIM di Finale Ligure, e si dice perplesso sui dati forniti dall’Esercito: «Al pari di altre patologie ci si dovrebbe aspettare un’incidenza analoga agli altri paesi impegnati in missione all’estero e questo fa pensare che il fenomeno non sia stato rilevato», spiega Moretti. Perplessità condivise in questi anni con la collega e psicologa Sabrina Bonino, con cui ha fatto squadra, che introduce un ulteriore aspetto emerso dall’esperienza “di trincea” di Finale Ligure (capitanata dal Direttore del Dipartimento di psichiatria, Tiziano Ferro). «Sono venuti tutti con delle fotografie da mostrarmi, perché forse temevano di non essere creduti», racconta Bonino.
La psicologa si riferisce a immagini di corpi dilaniati dall’esplosione e raccolti dai suoi pazienti nei giorni successivi all’attentato. Dalla paura di non essere creduti nasce, forse, l’ossessione dei militari per la documentazione fotografica: corpi dilaniati o carbonizzati, fusi tra loro o nelle lamiere delle macchine, brandelli di carne. «Noi le fotografie le abbiamo stampate in mente, nei minimi dettagli, ma sono da vedere», è stata la battuta ricorrente durante molti incontri.
A Pietro Sini, altro reduce dall’Iraq, il Disturbo da stress è emerso tardi, nel 2009, quando è diventato irritabile per ogni cosa, e ha perso il sonno, ha capito «che qualcosa non stava funzionando». Sini è un operativo. Subito dopo l’esplosione si è gettato nella base, dove ha messo in salvo oltre 5 colleghi (lo mostra in parte la TV araba) e nel video mostra le foto degli accertamenti del post-attentato, fatte per il riconoscimento dei corpi. «Questo è quel collega che ti dicevo, dentro il Defender», dice Sini indicando una gamba che il calore dell’esplosione ha letteralmente fuso nel motore. Racconta che i resti dei compagni sono stati raccolti a «mani nude, altri con le cesoie, perché aggrovigliati nel filo spinato. Dove ronzavano mosche, racconta il Carabiniere ora in congedo, lì sapevamo che c’erano resti umani. Mettevamo tutto in sacchi neri, normali sacchi di monnezza, cercando di evitare che i cani randagi si portassero via i resti dei nostri compagni».
Corpi, corpi a metà , corpi carbonizzati, corpi sfigurati e 6 sacchi della spazzatura di resti. Questo è quello che c’era in quelle 19 bare. «Noi raccoglievamo tutto, nell’impossibilità di sapere se si trattava di un Carabiniere, di un militare, o altro. La guerra è anche questo». «Quando la sera ti levi gli anfibi e con lo stecchetto li ripulisci dei resti di determinate cose», dice Piero Follesa, rievocando i giorni del post-attentato.
I due reduci sono amareggiati: «Altro che “figli”, altro che “uomini”, altro che “eroi”, l’Arma dei Carabinieri ci ha abbandonato quando ne avevamo più bisogno, per chi abbiamo combattuto?». È l’altro lato della retorica, quando la guerra “torna a casa” nella mente di chi c’è stato. Perché ammettere il disturbo mentale tra i militari «significherebbe dire all’opinione pubblica che le attività che stiamo svolgendo all’estero sono di stampo bellico», sottolinea Sergio Dini, Sostituto procuratore di Padova, a lungo Procuratore militare. Che retoricamente si chiede: «Perché l’Esercito dovrebbe istituire una struttura di studio per far emergere il fenomeno se lo si vuol negare?».
Nella lettura che ne dà Dini le Forze Armate sono un «passaggio obbligato» per entrare nelle Forze dell’ordine. È qui che si crea un gioco dell’equivoco, per il procuratore: l’interesse dei soldati a dissimulare il malessere per restare dentro ed entrare poi in Polizia collude con quello delle gerarchie militari a non doversi far carico del fenomeno. È il precariato militare: cumulare missioni su missioni nascondendo ansia e sofferenza, altrimenti il giorno dopo sei fuori. E ti giochi il tuo progetto di vita. E infatti c’è crisi di “vocazioni”: i soldati vengono (quasi) tutti dal Sud, da famiglie disagiate sul piano socio-economico, perché «non sarebbe presentabile mandare a morire i figli dei professionisti e così si è fatto l’esercito professionale: un escamotage per far pagare ai più poveri il prezzo concreto delle missioni all’estero. Che fine facciano questi ragazzi e se sia giusto che l’Esercito sia fondato sulle fasce più deboli della popolazione è un problema che non si sta ponendo nessuno», conclude Dini.
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