In Sicilia le prove generali per lasciare l’Italia

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Alcuni legati alla finanza, alcuni capitani coraggiosi e altri tenenti di brevissimo corso. Hanno tutti una sola caratteristica in comune, un obiettivo condiviso: chiudere la fabbrica di Termini Imerese e mandare a casa i lavoratori. Costruire automobili in Sicilia è una diseconomia, dicevano in coro i regnanti di turno, non c’è neanche il ponte tra Messina e Reggio. Eppure, alla fine degli anni Sessanta i soldi pubblici per aprire quello stabilimento la Fiat se li è presi, impegnandosi a costruire un indotto che non s’è mai visto, con la conseguenza di dover trasportare non solo le automobili finite dall’isola in continente, ma anche le componenti dal continente all’isola. Eppure, costruire in Serbia o in Polonia auto per l’esportazione nei mercati europei non è antieconomico, persino i suv fatti in Italia per il mercato Usa, o in Usa per quello europeo rientrano nelle possibilità . Lo stretto di Messina è più ampio dell’Atlantico?
Poi, improvvisamente, Marchionne scoprì che in cambio di garanzie e soldi pubblici Termini sarebbe diventata così conveniente – una punta di lancia industriale nel Mediterraneo – da spingerlo a firmare un accordo con sindacati, governo Prodi e regione Sicilia per raddoppiare lo stabilimento. L’accordo non ha mai visto la luce, mentre è tornato centrale l’obiettivo iniziale: chiudere Termini Imerese, mandare a casa i suoi operai.
È dal 2002 che gli operai siciliani difendono con le unghie e con i denti il loro stabilimento. Bloccando i cancelli, invandendo ora Palermo ora Roma, arrampicandosi sui tetti, coinvolgendo istituzioni, politica, cultura, studenti, centri sociali, artisti. Quasi 10 anni di battaglie, senza tregua, con la rabbia di chi ha l’orgoglio di rappresentare un’alternativa pulita all’economia criminale in un territorio esposto come la Sicilia. Il fatto è che la Fiat di Marchionne, come le Fiat di chi l’ha preceduto, in Italia può fare quel che gli pare, a differenza che negli Usa, o in Germania. Non c’è un governo che imponga al Lingotto di restare, o di restituire i soldi pubblici presi in quarant’anni. La politica non si scalda, i lavoratori sono abbandonati al loro destino: un ponte improbabile tira più di tante concrete vite operaie.
Dieci anni sulla strada, molti di loro sono invecchiati in cassa integrazione. Un fatto che per il ministro Romani ha un valore non sociale bensì anagrafico: ancora due anni anni di cassa e forse 900 operai avranno raggiunto l’età  del prepensionamento, liberando il campo dalla loro presenza. Gli altri? Se non saranno ancora prelicenziabili tra due anni, se ne prenderà  – se non ci ripenserà  come ha già  fatto con la Irisbus – 1.312 un tipo che assembla in Molise qualche auto cinese. Altri 200 se li porterà  a casa un altro paio di imprenditori e il gioco è fatto. Marchionne non ha tempo da perdere, ha troppi impegni negli Usa per cincischiare in un’isola senza ponte, o discutere con un «sindacato ideologico» come la Fiom.
Termini Imerese è il banco di prova di Marchionne: se riuscirà  a lasciare l’isola senza pagare dazio, presto potrebbe andarsene anche dalla penisola e abbandonare l’Italia. Ieri, a chi chiede garanzie per gli stabilimenti italiani, Marchionne ha detto: su Mirafiori «sto ancora lavorando». È l’unico, per tutte le tute blu torinesi c’è solo cassa. Marchionne aveva giurato: non chiuderò nessuna fabbrica in Italia. Dopo la Cnh di Modena e la Irisbus di Avellino, Termini è la terza vittima. La Fiom ha annunciato una mobilitazione generale di tutti i lavoratori del gruppo? No problem: «La Fiat andrà  avanti, non si farà  condizionare da una minoranza». Domanda ai sindacati, alla politica, alla sinistra, ai movimenti: il modello Marchionne è un problema della sola Fiom?


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