Il trilemma che imprigiona l’economia globale

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Ci attende un collasso economico analogo negli anni a venire? La domanda non è peregrina. La globalizzazione dell’economia ha consentito livelli di prosperità  senza precedenti nei Paesi avanzati ed è stata una manna per centinaia di milioni di lavoratori poveri in Cina e in altri Paesi dell’Asia, ma poggia su piedi malfermi. A differenza dei mercati nazionali, che normalmente sono supportati da un ampio ventaglio di istituzioni normative e politiche, i mercati globali non possono contare su fondamenta solide: non esiste nessun prestatore globale di ultima istanza, nessuna autorità  di regolamentazione globale, nessun regime fiscale globale, nessuna rete di sicurezza globale e naturalmente nessuna democrazia globale. Questa governance tanto fragile espone i mercati globali a instabilità , inefficienza e deficit di legittimazione popolare.
Questo squilibrio tra il potere nazionale dei Governi e la natura globale dei mercati rappresenta il ventre molle della globalizzazione. Un sistema economico mondiale sano necessita di un delicato compromesso fra le due cose.
Troppo potere ai Governi e ci si ritrova con protezionismo e autarchia; troppa libertà  ai mercati e ci si ritrova con un’economia mondiale instabile e scarso consenso sociale e politico da parte di quelli che dovrebbero trarne beneficio. I primi trent’anni dopo il 1945 furono governati dal compromesso di Bretton Woods, dal nome della località  di villeggiatura del New Hampshire dove americani, inglesi e altri rappresentanti delle nazioni alleate si riunirono nel 1944 per disegnare il sistema economico del dopoguerra. Il sistema di Bretton Woods era un multilateralismo leggero, che consentiva alle autorità  nazionali di concentrarsi sulle esigenze sociali e occupazionali interne e contemporaneamente di lasciare spazio agli scambi commerciali globali per favore la ripresa e la prosperità . L’aspetto geniale del sistema era il suo equilibrio, che assolveva, in modo ammirevole, a più scopi.
Alla fine Bretton Woods, quando fu lasciata libertà  di movimento ai capitali, si rivelò insostenibile. Negli anni 80 e 90 fu rimpiazzato da un più ambizioso programma di liberalizzazione e integrazione economica spinte, un tentativo di istituire quella che potremmo chiamare iperglobalizzazione. Gli accordi commerciali ora non si limitavano più, come tradizione, a occuparsi di restrizioni alle importazioni, ma andavano a interferire con le politiche nazionali: i controlli sui mercati dei capitali internazionali furono rimossi e i paesi in via di sviluppo furono sottoposti a pesanti pressioni per aprire i loro mercati ai commerci e agli investimenti esteri. La globalizzazione economica diventò, di fatto, uno scopo in sé.
Il risultato fu una serie di delusioni. La globalizzazione finanziaria ha finito per propagare instabilità  invece che maggiori investimenti e crescita più rapida. All’interno dei Paesi, la globalizzazione ha generato disuguaglianza e insicurezza invece di migliorare uniformemente la vita delle persone. In questo periodo ci sono stati successi clamorosi, Cina e India su tutti. Ma questi sono Paesi che hanno scelto di giocare al gioco della globalizzazione non secondo le regole nuove, ma secondo quelle di Bretton Woods: invece di aprirsi incondizionatamente ai commerci e alla finanza internazionale hanno portato avanti strategie miste, con una massiccia dose di interventi pubblici per diversificare le loro economie. Nel frattempo, quei Paesi che seguivano ricette più consuete (come i Paesi latinoamericani) segnavano il passo. E la globalizzazione così è diventata vittima del suo stesso successo iniziale.
Per rimettere in piedi, su basi più solide, il nostro mondo economico, bisogna comprendere meglio il fragile equilibrio fra mercati e governance. Innanzitutto, mercati e Governi sono complementari, non alternativi. Se vogliamo più mercati e mercati migliori, dobbiamo avere più governance (e governance migliore). Il mercato funziona meglio non quando lo Stato è più debole, ma quando lo Stato è forte. In secondo luogo, il capitalismo non è un modello univoco: prosperità  economica e stabilità  si possono raggiungere attraverso diverse combinazioni di assetti istituzionali nel campo del mercato del lavoro, della finanza, della gestione aziendale, del welfare e così via. Le nazioni effettueranno (hanno il diritto di effettuare) scelte diverse fra questi sistemi, a seconda delle loro esigenze e dei loro valori.
Dette così possono sembrare idee trite e ritrite, ma hanno implicazioni enormi per quanto riguarda la globalizzazione e la democrazia, e per capire quanto possiamo prendere in presenza degli altri. Una volta capito che i mercati per funzionare bene hanno bisogno di istituzioni pubbliche di governo e di vigilanza, e anche che le nazioni possono avere preferenze diverse sulla forma che queste istituzioni e queste normative possono assumere, abbiamo cominciato a raccontare una storia che ci conduce a dei finali radicalmente diversi.
In particolare cominciamo a comprendere quello che io definisco il «trilemma» politico di fondo dell’economia mondiale: non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica. Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica. Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato-nazione e l’autodeterminazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione. I problemi che abbiamo nascono dalla nostra riluttanza a confrontarci con queste scelte ineluttabili.
Far progredire insieme la democrazia e la globalizzazione è possibile, ma il trilemma suggerisce che per fare una cosa del genere sarebbe necessario creare una comunità  politica globale, un progetto molto, ma molto più ambizioso di qualsiasi cosa si sia vista in passato o si possa immaginare di vedere in un futuro prossimo. La governance democratica globale è una chimera, che sembra difficile da realizzare perfino in un raggruppamento ben più ristretto e coeso come l’Eurozona. Qualunque modello di governance globale si possa sperare di realizzare in questo momento potrà  servire a supportare solo una versione molto limitata della globalizzazione economica.
Dunque dovremo fare delle scelte. Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l’economia mondiale, e qui sta il paradosso estremo della globalizzazione. Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici. Non ci serve una globalizzazione estrema, ci serve una globalizzazione intelligente.
L’autore è ha scritto il saggio “La globalizzazione intelligente” (Laterza 2011)
Traduzione di Fabio Galimberti


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