Il Raìs rifiuta la resa «Le tribù sono con me Farò terra bruciata»

by Sergio Segio | 2 Settembre 2011 9:58

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TARHUNA — Non c’è confine definito tra le linee dei ribelli e delle milizie di Gheddafi. I posti di blocco sono abbandonati da almeno ventiquattr’ore. La terra di nessuno è percorsa da qualche sparuta vettura che dribbla tra quattro camion di munizioni e una decina di jeep incenerite dai missili di precisione della Nato, in un tratto di provinciale non più lungo di 20 chilometri. L’ultima barricata controllata dalla guerriglia rivoluzionaria si trova a Suq Al Khamis: casupole basse, fattorie agricole, negozietti semichiusi con gli agricoltori che vendono uva, angurie e meloni direttamente da cassette appoggiate sull’asfalto. Fa un caldo opprimente, reso ancora piu’ fastidioso dall’olezzo delle immondizie non raccolte e sparse un poco dovunque. «Benvenuti. Potete andare tranquilli, qui di gheddafiani neppure l’ombra, sono battuti, si nascondono», gridano i ragazzini con i Kalashnikov a tracolla, regalando rami carichi di datteri semiacerbi.
Ma non è vero per nulla. È l’ennesima incognita di questa guerra civile dove le mappe geografiche degli spostamenti di truppe variano di continuo e le certezze della sicurezza abdicano per affidarsi alla buona stella. Appena dopo Suq Al Khamis infatti s’incontrano solo postazioni dei ribelli vuote, silenziose, spettrali. Sono state abbandonate quattro giorni fa, per permettere alla Nato di eliminare mezzi e postazioni nemiche senza il rischio di colpire gli alleati. Ogni tanto una bandiera verde impolverata sventola da un pilone della corrente. E quando entri alla periferia di Tarhuna quasi non ti accorgi di essere arrivato al cuore delle tribù ancora legate a filo doppio al Colonnello. Tra le prime case c’è il bivio che in 90 chilometri conduce a Bani Walid, la capitale della tribù dei Warfalla, un milione di persone, praticamente un sesto di tutta la popolazione libica. Due anziani accovacciati all’ombra proiettata sul marciapiede dall’edificio della loro macelleria riportano rapidamente alla realtà . «Qui siamo tutti rivoluzionari», esclamano. Perché allora non bruciano le bandiere verdi come fanno tutti poco più verso valle? Specificano che la loro rivoluzione è quella di Gheddafi nel 1969, non le sommosse del 17 febbraio. Quindi aggiungono: «Viva la lotta del Colonnello contro i topi collaborazionisti e gli invasori della Nato. Moriremo per lui». Così ieri siamo venuti a vedere sul terreno quello che potrebbe diventare il campo di battaglia delle prossime, eventuali, terribili, tensioni tribali.
Spesso i leader urbani della rivoluzione non accettano di affrontare il tema, eppure esiste un Paese rurale ancora frazionato. Finora la guerra si è giocata in prevalenza tra milizie in spostamento rapido e dove i ribelli sembravano godere del sostegno della maggioranza della popolazione. Ma non a Sirte e soprattutto non qui, tra Tarhuna e Bani Walid, dove Gheddafi ha sempre raccolto consensi entusiastici. Per decenni ha costruito il suo potere sul divide et impera, sulle frizioni secolari tra Cirenaica e Tripolitania, sullo scontro identitario tra Libia araba, africana-sahariana e berbera. Proprio per evitare inutili bagni di sangue, da Bengasi è stato prorogato l’ultimatum sino al 10 di settembre, avrebbe dovuto scadere domani. «Abbiamo preso contatto con i leader tribali delle regioni contese, speriamo di convincerli a deporre le armi e accettare il nuovo corso democratico», confermano tra le fila della rivoluzione.
Eppure Gheddafi non fa che versare benzina sul fuoco delle divisioni tribali. Sono in tanti a ritenere che possa essere nascosto tra i fedelissimi di Bani Walid. Da qui, molto più che dalla città  circondata di Sirte, gli sarebbe abbastanza facile all’occorrenza sparire verso il Sahara africano. E comunque continua a lanciare il suo mantra di battaglia. Ieri pomeriggio la tv siriana Al-Rai ha diffuso un suo messaggio dai toni bellicosi: «Vincere o morire. A Sirte, Bani Walid e Sebha le tribù sono armate. Che scendano subito in campo a combattere. Dispongono di armi e munizioni a sufficienza per battere la Nato e i traditori libici al suo servizio». Ieri avrebbe voluto festeggiare in Piazza Verde a Tripoli (già  ribattezzata con il vecchio nome monarchico di Piazza dei Martiri) il 42esimo anniversario della sua presa del potere e si trova invece braccato. Anche il suo ex premier, Baghdadi Al Mahmoudi, è passato ieri dalla parte dei ribelli. Giura che combatterà  sino alla fine il vecchio dittatore. Se non dovesse farcela, la Libia dovrà  sprofondare con lui. «Venite con noi a battervi contro gli imperialisti, gli stranieri che vogliono impossessarsi del nostro petrolio. Piuttosto che arrenderci metteremo la Libia a ferro e fuoco». Non stupisce che il leader del Consiglio nazionale transitorio, Mustafa Abdel Jalil, sostenga che Gheddafi va preso a tutti i costi, vivo o morto. «Wanted, dead or alive», è scritto sui manifesti per le strade di Tripoli, che lo mostrano in possibili travestimenti, avvolto in un foulard o con la testa rasata. Altrimenti il Raìs resterà  una minaccia permanente per la Libia del nuovo corso.

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