Il premier verso l’incriminazione a Bari I fronti aperti
ROMA — Arriva a Bari l’inchiesta sui soldi versati da Silvio Berlusconi a Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore che reclutava donne da portare alle sue feste utilizzando come intermediario il faccendiere Valter Lavitola. E nelle prossime ore per il premier potrebbe scattare l’iscrizione nel registro degli indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci, così come sollecitato dai giudici del Riesame di Napoli, proprio in concorso con Lavitola. La mossa non appare comunque sufficiente a sbrogliare l’intreccio di indagini che vanno avanti in parallelo e continuano a concentrarsi sugli stessi personaggi. Perché rimane affidata ai pubblici ministeri di Roma la verifica sull’eventuale estorsione dello stesso Tarantini a Berlusconi. E perché ieri i pubblici ministeri di Napoli hanno disposto perquisizioni nella sede del quotidiano Avanti! e in altre società di Lavitola per ricostruire il percorso dei soldi a lui assegnati attraverso l’erogazione dei fondi destinati all’Editoria. Finanziamenti per oltre 17 milioni di euro gestiti dal dipartimento di Palazzo Chigi dove gli investigatori della Guardia di Finanza hanno acquisito numerosi documenti proprio per accertare se ci siano stati esborsi non dovuti attraverso l’emissione di false fatture.
I soldi a «Gianpi»
Sembrava che l’ordinanza del Tribunale depositata lunedì scorso potesse mettere ordine nell’attività dei magistrati. E invece quattro giorni dopo quella decisione, si moltiplicano i fascicoli per stabilire a che titolo Silvio Berlusconi abbia pagato per oltre due anni gli avvocati difensori, lo stipendio e altre utilità all’imprenditore pugliese accusato di sfruttamento della prostituzione per le decine di ragazze pagate per essere portate ad Arcore, Palazzo Grazioli e Villa Certosa. Ma anche per scoprire la vera natura dei rapporti economici e affaristici tra il capo del governo e Lavitola. Finora si è accertato che il presidente del Consiglio si è accollato il mantenimento della famiglia Tarantini sin dall’arresto di lui per spaccio di droga avvenuto nel settembre 2009, provvedendo alla scelta e all’onorario dei legali oltre alla ricerca di un lavoro che gli consentisse di uscire dalla detenzione domiciliare.
«Lo ha fatto per evitare che raccontasse i dettagli delle feste e confessasse che il premier sapeva quale vero mestiere svolgessero le sue invitate», ha affermato il Tribunale del Riesame. Ecco dunque spiegata l’accusa di induzione a mentire che di fatto ha trasformato Tarantini in una vittima. Secondo la procura di Roma i ruoli si ribaltano però con l’entrata in scena di Lavitola che dal settembre 2010 fa da tramite con Berlusconi affinché l’imprenditore ottenga uno stipendio mensile di 20 mila euro, altri versamenti saltuari e — nella scorsa primavera — la messa a disposizione di 500 mila euro. Un’escalation di richieste che, questo dicono i magistrati capitolini, altro non è che un’estorsione: Berlusconi era ricattato da entrambi con la complicità di Nicla Tarantini, che più volte si rivolse al suo maggiordomo per avere contanti.
I soldi a Lavitola
Di ben altro spessore sono le cifre che Lavitola avrebbe ottenuto da Palazzo Chigi: due milioni e mezzo di euro l’anno a partire dal 2003 per finanziare il suo quotidiano Avanti!. È il governo a distribuire questo genere di fondi. Ma ascoltando una telefonata intercettata nel settembre 2009 dai magistrati abruzzesi che indagavano su un giro di tangenti nel settore sanitario, si scopre come Lavitola chiedesse aiuto direttamente a Berlusconi, mostrando una tale familiarità da poter annunciare «un appunto consegnato a Marinella», segretaria storica del premier. Al presidente il faccendiere chiedeva di «intervenire» sul sottosegretario Paolo Bonaiuti per superare le resistenze all’erogazione da parte del ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ora i magistrati napoletani gli contestano di aver emesso false fatturazioni attraverso alcune società che hanno sede a Milano e in Calabria proprio per poter «gonfiare» i costi e così ottenere fondi maggiorati.
In serata i finanzieri sono andati a sequestrare anche i computer di Luigi Bisignani, il lobbista tuttora agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. L’intreccio delle indagini sugli affari conclusi all’ombra di Palazzo Chigi appare tutt’altro che risolto.
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