Il metodo del Cavaliere

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Quel provvedimento cautelare, viceversa, ci offre una verità  concreta, e «tecnicamente» ineccepibile. Il presidente del Consiglio ha subito un ricatto. Questa volta, almeno per adesso, lui appare come la «vittima». Ma in attesa di capire se e come cambierà  la sua posizione nel corso dell’inchiesta, a leggere l’ordinanza dei pubblici ministeri di Napoli emerge fin da ora un’altra verità , politicamente insostenibile. Berlusconi è un premier che, per i suoi vizi pubblici e i suoi stravizi privati, si è esposto alle intimidazioni costanti di un gruppo di delinquenti. È un premier costretto a comprare il silenzio di chi lo ha «assistito» nelle sue avventure, e minaccia di raccontare tutto all’opinione pubblica. Dunque è un premier che, piuttosto che “vittima”, è carnefice di se stesso. E per questo non può governare una moderna democrazia occidentale.
Nelle 105 pagine del documento del gip emerge con chiarezza quello che si può definire il «metodo Giampi». Tarantini, e insieme a lui sua moglie e Valter Lavitola, hanno effettivamente architettato un meccanismo che gli ha consentito, nel corso di un anno, di «spillare» a Berlusconi enormi quantità  di denaro (salvo poi spartirsele e fregarsele tra loro, in un vortice di miserabili e reciproci raggiri). Un versamento «una tantum» di 500 mila euro. E poi 14 mila euro al mese, più il pagamento del canone di affitto della casa e altri benefit. Dalle telefonate intercettate viene fuori in modo esplicito. Tra loro, si dicono «dobbiamo andargli addosso», «dobbiamo metterlo in ginocchio», «con le spalle al muro», «dobbiamo tenerlo sulla corda», «sotto pressione». Per loro, il Cavaliere è un formidabile «bancomat», che serve a finanziargli le vite dissipate cui si sono abituati. In punto di diritto, il premier è effettivamente oggetto di un’estorsione, grave e prolungata.
Ma dietro tutto questo, quello che emerge è soprattutto il «metodo Berlusconi». Perché il presidente del Consiglio paga? Perché fa fronte alle richieste sempre più pressanti e sempre più consistenti dei suoi presunti «persecutori»? Questo è il punto chiave della vicenda, che ci riporta alla calda estate del 2008, ai festini di Villa Certosa, alle «cene eleganti» di Palazzo Grazioli. In una parola: al bunga bunga, alle escort, a Patrizia D’Addario e alle papi-girl. Come scrivono gli stessi magistrati, e come si evince dalla lettura delle intercettazioni, il Cavaliere paga il silenzio di Tarantini e Lavitola. Paga perché i suoi apparenti «aguzzini» non rivelino quello che lui non vuole si sappia.
Sono due le cose che gli stanno a cuore, e che lo spingono a versare «consistenti cifre e benefici», in questo anomalo rapporto di «interlocuzione privilegiata» che intrattiene con un noto «pusher» di ragazze già  indagato a Bari (Tarantini) e con un meno noto «faccendiere» già  coinvolto nella macchina del fango che servì a massacrare Gianfranco Fini per la casa di Montecarlo (Lavitola). La prima cosa: si deve pubblicamente sapere che Berlusconi non è mai stato a conoscenza di aver avuto rapporti con «prostitute» nelle sue residenze pubbliche e private, non le ha mai pagate per lo loro prestazioni. La seconda cosa: si deve convincere Tarantini, perseguito per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, a ricorrere al patteggiamento. In questo modo – scrivono i magistrati – l’intero «procedimento finirebbe in archivio, unitamente a tutte le trascrizioni delle conversazioni» relative alle «prestazioni sessuali offerte dalle ragazze» di cui il premier è stato «diretto beneficiario», «senza possibilità  di circolazione sulla stampa».
Di queste due urgenze assolute di Berlusconi, come si può leggere nell’ordinanza, Tarantini e Lavitola sono ben consapevoli. Ed è su queste urgenze che insistono, per azionare il «bancomat» del Cavaliere. Se uscisse sulla stampa il contenuto di quelle «trascrizioni» – scrivono ancora i pm riportando i giudizi dell’avvocato di Tarantini – sarebbe «catastrofico per l’immagine di Berlusconi». Per questo paga. Per questo si lascia risucchiare dentro una relazione pericolosa con due disgraziati. Le telefonate tra Marinella Brambilla (segretaria personale del presidente del Consiglio) e Lavitola («attivo e riservato informatore su vicende giudiziarie di interesse dello stesso Berlusconi», secondo la definizione dei giudici) sono agghiaccianti. Per il tono (di «speciale vicinanza», lo descrivono i magistrati). Per il linguaggio (ricorda quello dei gangster di Chicago degli Anni Trenta). Per il contenuto (nel gergo dei faccendieri si parla allusivamente di «stampa di fotografie», che nella terminologia dei giudici si traduce in «dazione di consistenti somme di denaro contante»). Il tutto, intermediato da «Juannino», alias Rafael Chavez, misterioso collaboratore peruviano di Lavitola.
Berlusconi, come scrive l’ordinanza, è coinvolto in tutta questa penosa vicenda solo «dal punto di vista mediatico». Non c’è agli atti nessun risvolto penale a suo carico. Ma torna in gioco, oggi più che mai, l’enorme gravità  politica dei fatti di cui il premier si è reso protagonista. Torna in gioco l’insostenibilità  etica di un presidente del Consiglio che oggi, di fronte alle rivelazioni intorno all’arresto di Tarantini, torna a ripetere la favola del benefattore, che non paga per far tacere i testimoni scomodi delle sue intemperanze, ma per aiutare «le famiglie bisognose». Chi vuole aiutare i poveri fa donazioni pubbliche, magari di fronte ai sindaci e alle autorità  costituite, non versa contanti sottobanco a «lenoni» indagati e a trafficanti chiacchierati, con l’intermediazione di oscuri sensali sudamericani.
Torna in gioco l’inaffidabilità  di un capo di governo che, in piena discussione sulla manovra economica a metà  luglio, perde una quantità  esorbitante del suo tempo per discutere di questi «affari» al telefono con Lavitola, e per raccontare la sua indignazione dicendo «… a me possono dire che scopo… è l’unica cosa che possono dire di me… non me ne fotte niente… tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei… da un’altra parte e quindi… vado via da questo paese di merda …» Il vero «paese di merda» non è l’Italia, che non merita questo insulto. Ma è il «mondo parallelo» che il presidente del Consiglio costruisce con le sue menzogne, con i suoi comportamenti.
Lo squallido caso Tarantini racconta di un premier che, travolto dalle sue debolezze, si offre sistematicamente al ricatto. E non è più un uomo libero. Non lo è non certo nell’organizzazione delle sue serate, ma nell’esercizio proprio della sua funzione politica e istituzionale. Altro che gossip, altro che privacy. Questo è uno scandalo pubblico, al quale Giuseppe D’Avanzo, su questo giornale, aveva inchiodato il Cavaliere, prima con le «dieci domande» sul caso Noemi-D’Addario, poi con le «dieci bugie» sul caso Ruby. Perché è costretto a comprare il silenzio di tante, troppe persone? Di cosa ha paura? Qual è la verità  che deve a tutti i costi nascondere? Dopo quasi tre anni, noi crediamo di averlo capito. Ma lui, agli italiani, non lo ha ancora spiegato.


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