Il Colle e i paletti istituzionali su crisi e governi tecnici
La dietrologica categoria del «vorrebbe, ma non può» è una costante delle analisi politiche in Italia. Specie quando si ha a che fare con le più alte cariche dello Stato, che non a caso spesso schivano le domande imbarazzanti recriminando sulle proprie mani legate. Così è successo anche ieri. Quando qualcuno ha preteso di interpretare le parole del presidente della Repubblica, in risposta a un quesito con cui l’ambasciatore Sergio Romano ventilava l’ipotesi di un esecutivo tecnico (ma lui, con più garbo, ha detto «composto da persone che non abbiano immediate preoccupazioni elettorali»), come un modo per cavarsela.
Insomma: la replica con la quale Giorgio Napolitano ha stoppato il tormentone su un prossimo gabinetto post-Berlusconi, spiegando che «finché c’è un governo in carica che abbia la fiducia della maggioranza in Parlamento io non posso certo sovrapporvi, non dico il fatto, ma nemmeno l’idea di un governo diverso», è parsa ad alcuni osservatori come il frutto di una reticenza obbligata.
Una lettura interessata e sbagliata. Quasi a sottintendere che, «se invece potesse», il capo dello Stato provvederebbe di corsa a sostituire l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Le cose non stanno così. Non solo perché il presidente non deve, e non può, delegittimare — anche solo almanaccando pubbliche congetture su scenari futuribili — un governo che abbia i numeri alle Camere, «comunque esso agisca». Ma perché, e lo ha ricordato lui stesso in una sorta di memorandum sul proprio ruolo di arbitro istituzionale, «non siamo in una Repubblica presidenziale ma in una democrazia parlamentare». E poi perché si sa che la prospettiva di una destabilizzante cesura alla guida del Paese preoccuperebbe molto Napolitano. Meglio tenerla lontana dal nostro immediato orizzonte. Almeno in una fase critica come quella attuale.
Di più: posto che in ogni caso il governo dovesse cadere per un’implosione della sua stessa maggioranza, il capo dello Stato farebbe di tutto per non chiudere la legislatura. Lo ha spiegato ricostruendo, a uso del pubblico che affollava il forum dello studio Ambrosetti, a Cernobbio, la procedura che il Quirinale aprirebbe. E segnalando con puntiglio le proprie «prerogative», tra le quali rientra quella di «fare una proposta per la soluzione della crisi» e «incaricare la persona» che dovrebbe formare il nuovo esecutivo. Che non sarebbe necessariamente «tecnico» (o in qualsiasi maniera lo si intenda battezzare) e nato dalla volontà del capo dello Stato, secondo le speranze caldeggiate da più parti, nell’opposizione. Infatti, come ha ripetuto spesso, «tutti i governi sono parlamentari» e dunque politici. Restando fermo in ogni caso che, a suo avviso, le elezioni dovrebbero essere soltanto l’extrema ratio. Senza automatismi.
Sarebbero ragionamenti di scuola se non fosse che su tali ipotesi Giorgio Napolitano si è espresso più volte. È successo ad esempio quando «è sembrato che una crisi potesse accadere alla fine dell’anno scorso», con l’uscita del gruppo dei finiani dalla maggioranza, «ma non accadde». E, prima ancora, nell’estate del 2010, quando erano invece le forze del centrodestra a premere affinché lui congedasse subito il Parlamento e, come allora recriminò con sarcasmo e durezza, «mostravano stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non fosse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere».
Bisogna tenere conto di questi precedenti se si vuole comprendere in che direzione si muove il capo dello Stato. Una direzione che ha sempre reso esplicita. Pure ieri, dopo aver ringraziato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, «per quanto ha fatto nelle ultime settimane» per l’Italia, raccontando il suo assillo «per l’eccesso di conflittualità tra i partiti e per la forte pressione che calcoli elettorali e di convenienza esercitano». Ecco il senso dei suoi ripetuti appelli a far leva su quanto di positivo entrambi gli schieramenti hanno saputo produrre durante l’estate, dimostrando responsabilità nel varo urgente della prima manovra. La speranza che coltiva ora è che, fermi restando i suoi giudizi di fondo sui provvedimenti necessari (e basta pensare al richiamo a «parlare il linguaggio della verità » e a cancellare «l’intollerabile primato dell’evasione fiscale»), quel filo non si spezzi.
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