by Sergio Segio | 2 Settembre 2011 9:47
ROMA — Sviluppi se li aspettava il premier, da molti giorni ormai. Almeno da quando su Panorama della scorsa settimana è uscito un lungo e dettagliato articolo sull’inchiesta che coinvolgeva Tarantini, sua moglie e Valter Lavitola, accusati di avergli estorto denaro in cambio del silenzio sulle feste di Arcore, di palazzo Grazioli, di villa Certosa.
Già allora, come oggi, Silvio Berlusconi respingeva ogni addebito, anche se in questo caso il suo ruolo è quello della vittima e non di chi commette reati: «Ma quale estorsione, ho solo aiutato una persona in difficoltà », diceva due settimane fa. Ieri lo ha ribadito seccamente: «Estorsione? È pura fantasia quanto ipotizzato dai pm. Io ho dato una mano a una famiglia con figli abituata a vivere nell’agio e che poi si è ritrovata in miseria. Lo faccio con una miriade di persone, lo faccio perché me lo posso permettere». E comunque, nessuno dubiti: «Io resto per cambiare questo Paese», altro che fughe dall’Italia che lui stesso rivelava al telefono a Lavitola di aver in animo di fare.
Una linea di difesa che difficilmente cambierà , e che ieri il Cavaliere ha ripetuto a chi ha avuto modo di parlargli in una giornata passata quasi per intero a Parigi, dove ha partecipato al vertice sulla Libia. Essere in quella sede — utile anche per rassicurare i partner europei sulla tenuta e sulla serietà della manovra —, proprio nel giorno in cui si torna a parlare di inchieste legate alle sue serate lo ha fatto infuriare. Tanto più perché ha fatto il giro del mondo la sua frase choc pronunciata al telefono con Lavitola («Tra qualche mese vado via da questo Paese di merda, da cui sono nauseato») proprio nei giorni in cui l’Italia era sotto attacco della speculazione e un giornale come il Financial Times si domandava come mai il premier passasse il suo tempo a parlare con i suoi avvocati anziché occuparsi del Paese.
Per questo Berlusconi, al termine del vertice di Parigi, rassicura tutti: «La definizione che ho dato dell’Italia? È una di quelle cose che si dicono così al telefono a notte inoltrata, magari in un momento di rilassatezza, con un sorriso» spiega. E si lamenta: «È un Paese in cui le cose che si dicono al telefono non sono coperte dal segreto, in cui uno non è sicuro della inviolabilità delle cose che dice e se le vede pubblicate sui giornali. Cose dette magari in un momento di rilassatezza, o con un sorriso o per paradosso. Io resto qui per cambiare questo Paese anche per questo, perché non sia quel che è adesso». Peraltro, lo sfogo era dovuto alla condanna al maxi-risarcimento a De Benedetti per la vicenda del Lodo Mondadori, che «è una cosa insopportabile, una vera e propria rapina, ho dovuto pagare 600 milioni di euro alla tessera numero uno del Pd».
Insomma, si capisce che il premier vive questa inchiesta come l’ennesima tegola che lo danneggia ulteriormente in questi giorni in cui la maggioranza vive il tormento della manovra. Ed ecco tornare nella sua mente il sospetto, se non la certezza, che si tratti dell’ennesima trappola, dell’ultimo dei tanti complotti ai suoi danni. Questa — è il senso dei ragionamenti che il premier fa con i fedelissimi — è un’inchiesta strana e torbida fin dal primo momento perché nasce in quella Bari dove Massimo D’Alema è sempre stato fortissimo, e guarda caso proprio lui parlò di una «scossa» in arrivo nei suoi confronti.
Non solo, in privato il Cavaliere si lamenta perché «si procede con arresti e provvedimenti gravissimi» rispetto ad un’accusa sulla quale «io, che sarei la vittima, non sono stato neanche sentito per avere la mia versione dei fatti». E poi, per dirla con Fabrizio Cicchitto «qualcuno dovrebbe spiegare per quale motivo si debba rendere pubblica un’intercettazione in cui non c’è un solo passaggio che abbia attinenza con i reati che si contestano a Lavitola: qui troppo non quadra, davvero troppo».
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