Il calvario delle liste d’attesa e per una mammografia l’appuntamento è fra un anno

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Ci vuole pazienza oppure ci vogliono i soldi. Chi si sente prospettare un’attesa di un anno per una prestazione sanitaria ha solo queste due armi per ricacciare indietro rabbia e frustrazione. Ogni giorno a migliaia di italiani capita di dover ricorrere alle proprie risorse mentali e materiali per non crollare di fronte a quanto prospettato dalla loro Asl.
Sei mesi per una risonanza a Bari, quasi tre mesi per una tac al Civico di Palermo, sempre sei mesi per una semplice ecografia a Roma ma anche a Bologna, dove ci vogliono anche 300 giorni per una visita allergologica. Questa specialità  soffre ovunque: 9 mesi a Firenze, un po’ meno ma sempre tanto a Torino. A far segnare l’attesa record, succede così da anni, è la mammografia, quella asintomatica, che al policlinico di Bari fissano tra qualcosa come 400 giorni. Forse la lista più lunga d’Italia.
Ma non sono solo i grandi numeri a colpire. A Cagliari, per un esame banale come l’elettrocardiogramma chiedono ai cittadini 35 giorni di pazienza, a Palermo addirittura 60. Nessun sistema sanitario regionale (come dimostra la nostra tabella) può sentirsi escluso dal problema delle liste di attesa. Tutti soffrono in certi settori e finiscono per far registrare dati che si rivelano più virtuali che reali. Chi ha la prescrizione per una visita o un esame infatti non sta certo ad aspettare mesi. Si informa sui prezzi e finisce per rivolgersi al privato, che lo aspetta a braccia aperte e gli assicura la prestazione in un paio di giorni. Succede anche per la libera professione intramoenia, quella svolta dai medici dipendenti del servizio sanitario nazionale in strutture pubbliche o convenzionate.
Perché i tempi d’attesa nel nostro paese invece di migliorare peggiorano? I fattori sono tanti e disegnano una materia inestricabile da anni, malgrado i tentativi di riforma. Calo di risorse, problemi organizzativi, sprechi e scarsa collaborazione tra medici, ma anche consumismo sanitario sempre più accentuato.

Meno soldi e macchine poco utilizzate o vecchie
Per avere un’idea delle unità  di misura in cui ci muoviamo, bisogna aver presente che nel nostro Paese ogni anno si fa più di un accertamento diagnostico per ogni cittadino, in tutto circa 70 milioni, di cui almeno 30 sono radiografie tradizionali. Le visite specialistiche sono più del doppio: 150 milioni. Numeri impressionanti che aumentano costantemente, anche del 7% nel caso delle risonanze, circa 2 milioni ogni dodici mesi. Come risponde il nostro sistema sanitario alla crescita della richiesta dei cittadini? Non bene, almeno dal punto di vista di attrezzature e personale. Secondo una ricerca della Sirm, la società  italiana di radiologia medica, nel nostro paese, il 34% della strumentazione ad alto contenuto tecnologico ha più di 8 anni di età  (il 50% nelle Marche, nel Molise e in Calabria il 40 in Puglia e Basilicata e Liguria). Per quella di profilo tecnologico basso il dato delle apparecchiature vecchie, questa volta con più di 10 anni, sale al 44% (il 64% in Calabria). In più tac, risonanze ed ecografie sono sotto utilizzate. «Secondo la nostra ricerca non lavorano al loro massimo, cioè almeno 66 ore la settimana a macchina – spiega Franco Vimercati, radiologo presidente della Federazione italiana società  medico scientifiche – Perché questo avvenga ci vorrebbero 600 radiologi in più dedicati a quelle prestazioni nel pubblico». Le apparecchiature fanno così in media il 15% del lavoro in meno.
Non sarà  facile risolvere questi problemi molto rapidamente. Il sistema sanitario è in gravi difficoltà  economiche, con una riduzione dell’incremento del fondo destinato alle Regioni ormai continua. «Il peggio deve arrivare – dice Massimo Cozza, responsabile di Cgil medici – Aspettiamo altri tagli. Sostituire i colleghi che vanno in pensione sarà  sempre più difficile e vedremo le liste di attesa aumentare ancora». Ma chi ci guadagna se le attese si allungano?

Il business privato
Chi si trova davanti ad un’attesa troppo lunga si rivolge al privato. «Siamo un’ancora di salvezza, soprattutto oggi che la situazione nel pubblico sta peggiorando». Vittorio Cavaceppi è presidente dell’Anisap, l’Associazione nazionale delle istituzioni sanitarie private, che raccoglie un terzo delle 3mila aziende che fanno visite ed esami nelle Regioni italiane. In certi casi lavorano in convenzione, e si fanno pagare dalle Asl per ridurre le attese, in altri sono sul mercato privato, e i soldi arrivano dai cittadini. «Ma spesso facciamo sconti per andare incontro alle persone. Certo, la nostra attività  privata cresce in periodi di difficoltà  per il pubblico come questo. Un dato dell’aumento del nostro lavoro? E’ impossibile darlo, perché ogni Regione ha la sua storia».
Una parte dei guadagni per i tempi di attesa troppo lunghi nel pubblico rientra nello stesso sistema sanitario nazionale, attraverso l’intramoenia, cioè le prestazioni libero professionali svolte nelle Asl dai dipendenti fuori orario di servizio. Il fenomeno riguarda soprattutto le visite ma anche la diagnostica e non è sospinto solo dalle attese. Con questo sistema infatti ci si può scegliere il professionista, così molti lo usano perché vogliono essere visti da un determinato medico. Certo, quando si parla di attese molto lunghe la possibilità  di fissare una visita a pagamento nel giro di due giorni appare un’ingiustizia. Secondo una recente ricerca dell’associazione Assotutela per fare un ecocolordoppler dei tronchi sovra-aortici al San Camillo di Roma ci vogliono circa 270 giorni. Chi paga ne aspetta 2. Non è un’eccezione, succede un po’ ovunque. La libera professione è in crescita costante: nel 2001 gli italiani spendevano 700 milioni all’anno, nel 2009 quasi il doppio: 1,3 miliardi, una cifra secondo le stime che ha continuato a salire anche l’anno dopo. Circa il 14% di quei soldi resta in tasca alle Asl il resto va ai professionisti. Spesso il cittadino si sente proporre l’alternativa dell’intramoenia dallo stesso addetto che gli ha appena comunicato l’attesa nel pubblico. Eppure è vietato, i due percorsi dovrebbero essere separati.

Il Sud resta sempre indietro
Il Censis ha fatto di recente una rilevazione senza un grande valore scientifico ma piuttosto significativa. Ha calcolato l’attesa media sopportata dai cittadini italiani prima di ottenere la prestazione sanitaria. Il risultato è 50 giorni, quasi due mesi. La nostra rilevazione svela alcuni dati inaspettati, come il peggioramento del sistema sanitario emiliano che si desume dai dati del sito di Cup 2000. Va detto che a Bologna quando ci sono attese molto lunghe o è impossibile prenotare gli addetti si segnano il nome dell’utente e lo richiamano quando si libera un posto (le cosiddette agende di garanzia). Anche a Firenze, per alcune prestazioni ci sono attese lunghissime ma in Toscana ci sono attività , come alcune visite specialistiche, tenute ormai sotto controllo da anni. Al Sud accanto a liste di attesa molto lunghe se ne trovano di assai contenute. Secondo Tonino D’Angelo, segretario di Cittadinanzattiva Puglia, bisogna leggere in modo critico i dati. «Fidiamoci di quelli alti – dice – Quelli bassi non ci rivelano un miglioramento come trend. Il fatto è che talvolta si avviano progetti speciali, con investimenti economici che abbassano le attese per un po’. Poi ricominciano a crescere». Ci sono poi quelle che sembrano delle eccezioni. Secondo la Asl di Napoli, la città  sarebbe una delle migliori dal punto di vista delle attese. Smentisce nettamente i dati la Cittadinanzattiva locale. «La nostra sanità  è malata di attese – dice Carlo Caramelli, responsabile dell’associazione in Campania – Riceviamo tante segnalazioni per attese lunghissime. Il problema è che le liste non sono pubbliche, non si trovano online come previste dalla legge. Inoltre ce ne sono ancora molte di bloccate e non abbiamo un Cup. Così sono cancellati diritti dei pazienti come l’equità . La Regione dovrebbe pagare multe salate per non avviare questi servizi».

Centri di prenotazione incompiuti
Che quello dei tempi d’attesa sia un problema all’ordine del giorno al ministero e nelle Regioni non c’è dubbio. Del resto secondo una recente ricerca del Censis, per il 70% dei cittadini la prima cosa da migliorare nel sistema sanitario pubblico sono le attese. I risultati dell’impegno istituzionale lasciano a desiderare. Il ministro Ferruccio Fazio ha predisposto un piano nazionale di governo delle attese che prevede tra l’altro la fissazione dei tempi massimi entro cui devono essere assicurate certe prestazioni, la creazione di classi di priorità , la gestione degli accessi attraverso i Cup, i centri unici di prenotazione che permettono di conoscere i tempi di tutte le strutture della propria zona. Sempre secondo il Censis i Cup non sono ancora abbastanza diffusi, li usa circa il 35% di chi prenota al Nord, il 31 al Centro e intorno al 20 nelle isole e al Sud. Negli altri casi ci si reca agli sportelli degli ospedali o si telefona direttamente ai reparti, e non si può sapere quale struttura nella propria zona assicuri prima la prestazione. Cittadinanzattiva-Tribunale diritti del malato nel suo rapporto dell’Osservatorio sul federalismo in sanità  fa notare come i tetti massimi di attesa siano previsti nelle varie Regioni su numeri diversi di prestazioni: dalle 125 del Piemonte alle 33 della Calabria. Anche per la trasparenza le cose non vanno bene. L’Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali ha rilevato come poco più della metà  delle aziende sanitarie, il 57% riporti i tempi di attesa sul proprio sito web e solo 7 Regioni hanno il 100% delle Asl con i dati online. Ma cosa succederebbe se tutti i Cup entrassero a regime, se ci fosse più personale, le macchine fossero moderne e funzionassero al 100% delle loro possibilità ?

Domanda sempre in crescita
Il tema delle liste di attesa è reso ancora più complesso da un aspetto particolare. Se anche il sistema dell’offerta fosse perfetto, cosa ancora molto lontana nel nostro paese, secondo molti i tempi potrebbero non migliorare. «L’offerta in sanità  genera la domanda – spiega Vimercati – Purtroppo in Italia c’è un forte consumismo sanitario, cioè richiesta di visite ed esami che non servono». Giovanni Monchiero della Fiaso, la federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere, insiste sul tema delle domande improprie: «Molto spesso quegli esami non servono. Basta citare un dato. I casi di contenzioso per presunto errore clinico da ritardata diagnosi sono lo 0,01% del totale. Vuol dire che le prestazioni inderogabili vengono fatte in tempi certi e adeguati».
Il caso della risonanza magnetica è emblematico. Si tratta forse dell’unica prestazione che ha tempi di attesa lunghi in tutte le Regioni. L’invecchiamento della popolazione ha fatto aumentare il numero di richieste ma hanno lo stesso effetto le prescrizioni non appropriate. Ha studiato il fenomeno la Regione Toscana, scoprendo che la richiesta di questo tipo di risonanze cresce quasi del 7% all’anno. Che succede? Molto spesso si prescrivono risonanze che non servono. Un settantenne con il dolore al ginocchio non ha bisogno di questo esame perché il suo dottore scopra che ha l’artrosi e decida la terapia, basta una lastra. «In quel caso la risonanza è stata inutile a meno che l’esame non serva per programmare un intervento già  deciso – dice ancora Vimercati – Il problema riguarda soprattutto i medici. Devono smettere di fare i passacarte mandando i cittadini a fare gli esami senza visitarli. Finiamola di affidarci solo alle macchine». La querelle tra specialisti e camici bianchi che stanno sul territorio è aperta da tempo. «È vero, c’è un eccesso professionale – spiega Giacomo Milillo della Fimmg, la Federazione dei medici di famiglia – Noi e i radiologi dovremmo riunirci e scrivere regole comuni. Ad oggi però, visto che le attese sono lunghe, finisce che il medico di famiglia classifica tutte le richieste come urgenti e il sistema si ingolfa ancora di più».


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