Il bluff dell’addio alle Province un esercito di 61mila lavoratori confermati e con aumento di stipendio

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ROMA – Una cura drastica che minaccia di trasformarsi in un bluff. Risparmi? Si fa presto a parlarne: alla fine il disegno di legge costituzionale che taglia le Province potrebbe addirittura determinare un aumento della spesa pubblica. Perché, soppressi gli enti (almeno nell’attuale forma costituzionale), resta il “nodo” dei 61 mila dipendenti in servizio. Che fine faranno? Il testo approvato dal Consiglio dei ministri non dice nulla al riguardo. Ma secondo una delle tesi più accreditate – è la lettura, ad esempio, del presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione – dovrebbero finire negli organici delle Regioni. E ciò, per effetto dei differenti contratti collettivi, non avrebbe conseguenze irrilevanti: il trattamento economico complessivo dei regionali è superiore del 24 per cento rispetto a quello del personale degli enti locali. In soldoni: la spesa per gli stipendi, che attualmente ammonta nelle Province a 2 miliardi 300 milioni, crescerebbe di 600 milioni di euro. «Un paradosso», ripete più volte Castiglione, pidiellino finito in conflitto con il governo.
Un incremento di costi che farebbe a pugni con la clausola di salvaguardia apposta nel ddl, che impone alle Regioni una riduzione delle spese. Un aumento delle uscite maggiore dei risparmi determinati dal taglio degli apparati politici. Le indennità  di presidenti, assessori e consiglieri oggi pesano in tutto per 113 milioni di euro sui bilanci. Ma è una somma che non tiene conto di una doppia riduzione: quella già  decisa nel 2010 con la diminuzione del 20 per cento dei consiglieri e quella contenuta nella manovra al vaglio del Parlamento, che prevede la sforbiciata di un’altra metà  degli eletti. Significa, per intenderci, che già  dalle prossime elezioni i Consigli provinciali di Milano o di Palermo scenderebbero comunque da 45 a 18 componenti. Con l’abolizione tout court delle Province, il risparmio totale sarebbe di 35 milioni. Appena lo 0,3 per cento della spesa per le Province, che oggi si attesta sui 12 miliardi.
E le voci di spesa più rilevanti per le funzioni oggi svolte dalle amministrazioni provinciali qualcuno dovrà  in ogni caso accollarsele: per viabilità  e trasporti se ne vanno un miliardo 451 milioni di euro, per l’ambiente 3 miliardi 328 milioni, per le scuole 2 miliardi 234 milioni. Chi assumerà  questi compiti? Se non le Regioni, che potrebbero essere costrette a farlo creando enti e agenzie territoriali, saranno naturaliter le associazioni dei Comuni previste dal disegno di legge.
Nuove strutture amministrative «per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta» la cui istituzione è delegata alle Regioni, che con legge dovranno definirne organi, funzioni e legislazione elettorale. Mini-Province, o Province decostituzionalizzate che, sganciate dalle procedure fissate della Carta, potrebbero rimpiazzare o anche superare per numero le attuali. In base anche ad appetiti politici locali. Gli stessi che, in Sicilia, hanno portato alcuni esponenti politici a promuovere un disegno di legge per la nuova Provincia di Gela. Altri esempi: Province come quella di Torino, che conta 300 Comuni, o di Messina (che ne ha 108), potrebbero dar vita a una costosa filiazione. «Il pericolo è che si imponga il modello Sardegna», osserva Castiglione. Nell’isola, per iniziativa del Consiglio regionale, negli ultimi anni le Province sono diventate 8. Particolare non secondario: il provvedimento varato dal governo prevede che, qualora le Regioni non provvedano a decidere numeri e forma delle associazioni dei Comuni entro un anno dall’entrata in vigore della legge, le associazioni nasceranno ugualmente, in modo automatico, nel medesimo territorio delle Province soppresse. Vuoi vedere che le «aree vaste» saranno solo fotocopie degli enti cancellati sulla carta? L’Aiccre, l’associazione dei Comuni e delle Regioni d’Europa, non ha dubbi: «Aumenteranno gli enti territoriali e le spese», dice il segretario Vincenzo Menna. Anche perché le nuove articolazioni congegnate da Tremonti e Calderoli vanno a sovrapporsi alle già  esistenti unioni dei Comuni, previste dal Testo unico degli enti locali.
Poi c’è il nodo dei tempi: per far diventare definitivo il colpo di scure sulle Province servono almeno altri quattro sì: quelli delle due Camere che devono esprimersi in doppia lettura a distanza di tre mesi sulla legge costituzionale. Poi il termine (altri 90 giorni) per un’eventuale richiesta di referendum. Se si andasse ad elezioni anticipate, il disegno di legge finirebbe su un binario morto. Qualche chance in più avrebbe il testo in caso di scadenza naturale della legislatura. Ma l’anno di tempo assegnato alle Regioni per istituire le «aree vaste» allungherà  comunque la vita delle attuali Province. L’intero percorso legislativo, infatti, non potrà  concludersi prima del 2014. Le elezioni provinciali, nei prossimi due anni, si svolgeranno regolarmente e i mandati quinquennali dovranno poi concludersi: decine di enti, insomma, sopravviveranno sino al 2018. In barba alla cura drastica annunciata da Palazzo Chigi.


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