I GATTOPARDI DI TRIPOLI

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Stando all’ufficialità  ci attendono gloria e vittoria, in quanto “tutto va per il meglio”, come avrebbe detto quel personaggio di Voltaire, il professor Pangloss, passeggiando tra migliaia di cadaveri. Il meglio appunto include dai 20mila ai 50mila morti, secondo le stime di fine agosto. Applicando il rapporto standard di dieci feriti per ogni ucciso, ricaviamo che, su una popolazione di sei milioni di abitanti, i libici ammazzati o colpiti da proiettili e bombe sono stati dai 220 ai 550mila, l’equivalente in proporzione di 2-5 milioni di italiani.
Stando ad Amnesty international, gheddafisti e ribelli hanno praticato o praticano stili di combattimento qualitativamente simili che comprendono squadre della morte, camere di tortura e assassinio di arresi. Le atrocità  commesse dai soldati di Gheddafi sono in quantità  maggiore. Ma i ribelli potrebbero presto pareggiare i conti, essendo cambiati a loro vantaggio i rapporti di forza. Come denunciano da mesi varie organizzazioni umanitarie, nelle zone controllate dagli insorti bande brutalizzano gli immigrati africani e i connazionali con la pelle nera. Rapinano, stuprano o semplicemente sfogano il tradizionale razzismo arabo con il pretesto che le loro vittime siano “mercenari di Gheddafi”. È abbastanza per sospettare che ad incentivare le migrazioni verso l’Italia sia proprio la paura che incute quel gangsterismo ammantato di ideali, piuttosto che i non meno feroci soldati di Gheddafi.
Si dirà  che quando collassa un regime totalitario è quasi inevitabile che scorra il sangue e vi sia molta anarchia. Il problema è che non si vede alcun tentativo di punire le atrocità  commesse da insorti. Secondo Amnesty, il Consiglio nazionale di transizione non ha prodotto “alcuna indagine credibile né ha preso misure per chiamare i responsabili a rispondere”. Probabilmente non ha voluto. Ma se lo decidesse, sarebbe in grado di punire i colpevoli? Ha scarsa autorità  sui comandanti locali e nessuna nel Sud, dove non si sa bene cosa stia accadendo. È diviso da rivalità  ideologiche o tribali, essendo piuttosto malassortito. E comunque è poco credibile agli occhi dei combattenti, i quali, avendo rischiato la pelle, non accetteranno facilmente che guidi la transizione chi non ha meriti rivoluzionari, o peggio, svolgeva incarichi di responsabilità  nel regime.
Anche se la direzione pare quella, non è scritto nel destino che la Libia diventi uno Stato fallito, un caos sanguinolento in cui la politica sia un confronto militare tra consorterie armate, ciascuna con protezioni straniere e interessi nel malaffare, un po’ come l’Afghanistan dei mujahiddin (però un Afghanistan addossato all’Italia). Ma mettiamo che la storia ci sorprenda in positivo. Che Gheddafi domani si arrenda e la guerra di colpo finisca. Che migliaia di famiglie rinuncino a vendicare un parente ucciso, mutilato, torturato. Che il Consiglio nazionale di transizione riesca nel progetto cui sta già  lavorando, ricostituire lo Stato richiamando nei ranghi lo stesso personale in servizio prima della guerra, dagli impiegati fino ai viceministri, agli ufficiali delle Forze armate, insomma tutti tranne “i pochissimi” che si sono macchiati di atrocità , come annuncia il capo del Cnt. Mettiamo poi che la gioventù ribelle accetti questo gattopardismo, consegni le armi e torni serenamente a casa da mamma e papà , se nel frattempo non sono stati ammazzati; e nel Paese cominci una miracolosa transizione. In questo caso avremo grossomodo lo stesso risultato che si poteva raggiungere sei mesi fa, attraverso il negoziato proposto più volte da Gheddafi. La minaccia di un intervento Nato probabilmente avrebbe convinto il Colonnello ad accettare un esilio interno, sia pure ben mascherato. Quasi tutto il regime si sarebbe riciclato nel nuovo sistema, così come sta avvenendo, ma sarebbe cominciato un percorso verso la democrazia. L’unica vera differenza: nel governo provvisorio avrebbe svolto un ruolo importante un figlio del Colonello, Saif, fino a ieri considerato dagli occidentali il capo della fronda illuminata (in quanto ispiratore di quel Centro per i diritti umani che divenne punto di riferimento di vari riformatori e poi fu chiuso dalla polizia segreta).
Abbiamo sulla coscienza una guerra evitabile, controproducente, in ogni caso orribilmente stupida? Nessuno potrà  mai dimostrare che il negoziato con Gheddafi avrebbe potuto concludersi con un compromesso accettabile. Però sappiamo che a differenza dell’Egitto, la Libia non ha una salda radice unitaria, una tradizione parlamentare, una consuetudine con la libera competizione tra le idee, e neppure movimenti resistenziali di ispirazione liberale. A maggior ragione la transizione aveva bisogno della stabilità  che poteva offrire soltanto un percorso concordato. Sappiamo anche un’altra cosa: fin dal primo momento Parigi e Londra esclusero quella soluzione. Perché solo la guerra assicurava protagonismo e un lauto bottino petrolifero? No, perché Gheddafi è un criminale. Ma non lo era forse anche prima, quando la sua polizia ammazzava oppositori a dozzine? Sì, ma mai era arrivato a far bombardare le piazze, il popolo. Le prove? Le fornisce al-Jazeera, e i media occidentali le rilanciano: ma le più eclatanti sono falsificazioni. Il repertorio include immagini di cadaveri di soldati con le mani legate, “uccisi perché ammutinati”. Poi rivedi il filmato e hai l’impressione che gli assassini siano i ribelli, infatti non soccorrono l’unico moribondo. Ora Amnesty indirettamente conferma: all’inizio della sollevazione gli insorti uccisero militari che avevano catturato. In futuro potremmo scoprire che messe-in-scena e rivolta furono agevolate da un sodalizio di servizi segreti. Dopotutto già  negli anni Novanta i britannnici avevano provato a innescare moti in Cirenaica (Gheddafi sventò, probabilmente su soffiata dello spionaggio italiano).
Una transizione concordata era la soluzione migliore non solo per la causa della libertà  ma anche per gli interessi dell’Italia, cui la guerra prometteva e promette molti rischi. Tanto più risulta singolare il comportamento dell’informazione italiana: a parte pochi battitori liberi, quali Giuliano Ferrara e Sergio Romano, i nostri giornali fecero propria la linea sarkoziana del “con Gheddafi non si tratta” (e il corollario implicito: non resta che la guerra). In seguito mantennero il punto, talvolta con effetti tragicomici. Tre mesi fa il regime cercò di negoziare una pax musulmana con i ribelli, cui inviò una delegazione di undici imam. Intenzionalmente o no, l’aviazione Nato li incenerì mentre sostavano in una struttura militare. Quella sera un irrilevante mullah di Tripoli lanciò anatemi anche contro la popolazione italiana. La mattina seguente i nostri principali quotidiani gridavano in prima pagina che “l’islam libico” aveva promesso stragi di italiani per vendicare gli imam di Gheddafi. Nessun accenno ai motivi per i quali gli undici viaggiavano per la Libia.
Non è strano che siamo diventati “tutti francesi” quando semmai avremmo dovuto essere “libici”, e magari anche un po’ anche italiani? Gheddafista a marzo e sarkozista in aprile, e cioè privo di dignità  in un ruolo e nell’altro, il governo ha pensato di difendere i nostri affari con un’interpretazione convincente dello stereotipo dell’Italiano traditore. Però sorprende l’opposizione: perché si è lasciata abbindolare dai grandi progetti del piccolo Sarkò? Probabilmente per la solita subalternità  alla mediocrazia, intesa come potere dei media ed egemonia delle mediocrità . Ogni qualvolta la storia bussa ai nostri confini, l’informazione si conferma l’espressione di una classe dirigente modesta. Soffre una penosa carenza di strumenti concettuali, e soprattutto di curiosità , come è tipico di un giornalismo le cui nomenklature sono per gran parte un prodotto delle grandi scuole aziendali dell’ossequio. Inoltre, per ragioni che meriterebbero di essere indagate, tre o quattro ambasciate straniere sembrano disporre in Italia di un certo giornalismo cammellato, schierabile secondo gli interessi contingenti di quei Paesi, e anche contro l’interesse italiano. E per tutto questo, anche la guerra di Libia spinge a domandarsi se quest’Italia in crisi potrà  mai risollevarsi finché a rappresentarle situazioni e problemi sarà  un giornalismo così stanco e opaco.


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