I fondamentalisti dell’economia

Loading

Il tenace persistere della povertà  su un pianeta travagliato dal fondamentalismo della crescita economica è più che sufficiente a costringere le persone ragionevoli a fare una pausa di riflessione sulle vittime collaterali dell’«andamento delle operazioni».
L’abisso sempre più profondo che separa chi è povero e senza prospettive dal mondo opulento, ottimista e rumoroso – un abisso già  oggi superabile solo dagli arrampicatori più energici e privi di scrupoli – è un’altra evidente ragione di grande preoccupazione. Come avvertono gli autori dell’articolo citato, se l’armamentario sempre più raro, scarso e inaccessibile che occorre per sopravvivere e condurre una vita accettabile diverrà  oggetto di uno scontro all’ultimo sangue tra chi ne è abbondantemente provvisto e gli indigenti abbandonati a se stessi, la principale vittima della crescente disuguaglianza sarà  la democrazia. Ma c’è anche un’altra ragione di allarme, non meno grave. I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; del resto, arricchirsi è un valore tanto desiderato solo in quanto aiuta a migliorare la qualità  della vita, e «migliorare la vita» (o almeno renderla un po’ meno insoddisfacente) significa, nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica, ormai diffusa su tutto il pianeta, «consumare di più». I seguaci di questo credo fondamentalista sono convinti che tutte le strade della redenzione, della salvezza, della grazia divina e secolare e della felicità  (sia immediata che eterna) passino per i negozi. E più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità , più si svuota la Terra, l’unico contenitore/produttore delle risorse (materie prime ed energia) che occorrono per riempire nuovamente i negozi: una verità  confermata e ribadita quotidianamente dalla scienza, ma (secondo uno studio recente) recisamente negata nel 53 per cento degli spazi dedicati al tema della «sostenibilità » dalla stampa americana, e trascurata o taciuta negli altri casi.
Quello che viene ignorato, in questo silenzio assordante che ottenebra e deresponsabilizza, è l’avvertimento lanciato due anni fa da Tim Jackson nel libro Prosperità  senza crescita: entro la fine di questo secolo «i nostri figli e nipoti dovranno sopravvivere in un ambiente dal clima ostile e povero di risorse, tra distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità  di cibo, migrazioni di massa e inevitabili guerre». Il nostro consumo, alimentato dal debito e alacremente istigato/ assistito/amplificato dalle autorità  costituite, «è insostenibile dal punto di vista ecologico, problematico da quello sociale e instabile da quello economico». Un’altra delle osservazioni raggelanti di Jackson è che in uno scenario sociale come il nostro, in cui un quinto della popolazione mondiale gode del 74 per cento del reddito annuale di tutto il pianeta, mentre il quinto più povero del mondo deve accontentarsi del 2 per cento, la diffusa tendenza a giustificare le devastazioni provocate dalle politiche di sviluppo economico richiamandosi alla nobile esigenza di superare la povertà  non è altro che un atto di ipocrisia e un’offesa alla ragione: e anche questa osservazione è stata pressoché universalmente ignorata dai canali d’informazione più popolari (ed efficaci), o nel migliore dei casi è stata relegata alle pagine, e fasce orarie, notoriamente dedicate a ospitare e dare spazio a voci abituate e rassegnate a predicare nel deserto.
Già  nel 1990, una ventina d’anni prima del volume di Jackson, in Governare i beni collettivi Elinor Ostrom aveva avvertito che la convinzione propagandata senza sosta secondo cui le persone sono naturalmente portate a ricercare profitti di breve termine e ad agire in base al principio «ognun per sé e Dio per tutti»non regge alla prova dei fatti. La conclusione dello studio di Ostrom sulle imprese locali che operano su piccola scala è molto diversa: nell’ambito di una comunità  le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto. È tempo di chiedersi: quelle forme di «vita in comunità » che la maggior parte di noi conosce unicamente attraverso le ricerche etnografiche sulle poche nicchie oggi rimaste da epoche passate, «superate e arretrate», sono davvero qualco-sa di irrevocabilmente concluso? O, forse, sta per emergere la verità  di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del “progresso”): che cioè la rincorsa alla felicità  è solo un episodio, e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile, ed è stata/è/si rivelerà , sul piano pratico, una semplice deviazione una tantum, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea?
(Questo brano è un estratto dalla nuova prefazione di Bauman a lla nuova edizione di Modernità  liquidità  in uscita per Laterza )


Related Articles

Pagamenti in ritardo, si muove l’Europa

Loading

Procedura d’infrazione contro l’Italia per i rimborsi: dimostrate che siete in regola con i tempi

La manovra in 10 punti

Loading

 Meno tasse sul lavoro per 2,5 miliardi. Arriva la Trise, così le imposte sulla casa

Sofferenze e titoli di Stato istituti italiani sorvegliati speciali

Loading

E tra i super-ispettori dell’Eurotower ci saranno tre donne   

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment