I DIECI ANNI CHE HANNO SCONVOLTO IL MONDO

by Sergio Segio | 6 Settembre 2011 6:58

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I dieci anni che separano l’11 settembre 2001 dal settembre 2011 hanno costituito una prova durissima per l’Occidente. Certo, nel secolo scorso esso era stato sul punto di soccombere ed aveva trovato la forza di rialzarsi, prima con la vittoria sul nazismo e poi con l’abbattimento del muro di Berlino, che ha consentito la riunificazione dell’Europa e l’implosione del blocco sovietico. Ma questo decennio ha posto l’Occidente di fronte a due sfide nuove, altrettanto insidiose. Innanzitutto quella venuta dal terrorismo fondamentalista, che gli ha dichiarato una guerra difficile da combattere per l’assenza di un fronte e l’invisibilità  del nemico. Essa è ancora lontana dall’essere vinta, ma non c’è dubbio che, pur tra tragici errori come l’invasione dell’Iraq, nel complesso l’Occidente ha tenuto. Non solo per la cattura dei principali avversari, che proprio quest’anno ha decapitato Al Qaeda, ma soprattutto perché è riuscito a difendere senza troppi danni i propri standard democratici.
È vero che anche in questo caso ci sono state eccezioni – non solo Abu Ghraib, ma le violenze, gratuite e inaccettabili, che non sono mancate anche altrove. Ed è vero che alcuni sistemi di sicurezza messi in atto nei punti sensibili, soprattutto in America, possono risultare talvolta invasivi rispetto alla privacy. Ma resta il fatto che, per ora, il terrorismo non ha potuto vantare grandi vittorie strategiche. Ciò è stato reso possibile da molteplici fattori, primo dei quali il passaggio dall’amministrazione Bush a quella di Obama – e cioè dall’abbandono di un politica fondata sulla tesi dello scontro di civiltà  a favore di un’altra più rispettosa delle differenze tra culture e sistemi di valori diversi. Certo, le rivolte a sfondo etnico che hanno acceso le periferie di Parigi e Londra segnalano che il problema non è affatto risolto, che un punto di equilibrio accettabile tra integrazione ed opzione multiculturale non è stato ancora trovato, ma certamente si può ancora, e anzi si deve, lavorare ad un miglioramento progressivo dei rapporti con le comunità  locali, in un orizzonte più aperto anche dagli esiti complessivamente positivi della ‘primavera araba’.
Il vero problema dell’Occidente, come si è manifestato in questa lunga e terribile crisi economica, è però quello del rapporto con se stesso. Con la propria identità  e con il proprio modello di sviluppo. Più ancora, con la propria forma di vita. Anche in questo caso, nel suo insieme – rispetto alla crisi economica sfumano le distanze tra Europa ed America precedentemente emerse su questioni di politica estera –, l’Occidente si confronta con potenze esterne, soprattutto quelle asiatiche. E non c’è dubbio che da questo confronto esso risulterà  trasformato. Ma bisogna vedere in quale direzione. Se cercherà  di inseguire, o peggio imitare, le economie emergenti sul loro terreno – abbassando il costo, e peggiorando le condizioni, del lavoro fino a livelli insostenibili per la propria idea di civiltà , oppure se affronterà  la sfida senza perdere l’anima, custodendo le conquiste socio-culturali scaturite da decenni di democrazia.
Ma custodire quei valori democratici e sociali non significa lasciare le cose come stanno. Anzi ciò è possibile solo intervenendo, anche drasticamente, su quei modelli e stili di comportamento che hanno generato questa pesantissima situazione che viviamo. Innanzitutto lo schiacciamento dello sguardo al futuro sulla richiesta del consumo immediato. È quello che gli psicanalisti chiamano il cedimento dell’ordine del desiderio – sempre portato a oltrepassare la linea del presente in vista di un investimento futuro – all’imperativo del godimento. Naturalmente la crisi economica ha una serie di cause tecniche analizzate in questi mesi dagli economisti, al fondo delle quali vi è un crescente scollamento della finanza rispetto all’economia reale. Ma qui mi riferisco a qualcosa di più ampio e generale, in cui anche questo fenomeno patologico trova le proprie radici. Si tratta, appunto, della spinta ossessiva al consumo e dunque alla distruzione di ciò di cui si vuole godere in maniera illimitata – sia esso costituito da oggetti, da una parte di natura o anche, talvolta, dalla dignità  di altre persone.
Lo stesso rapporto tra generazioni – ormai contrapposte nella ricerca della salvezza dalla disoccupazione, ma anche da una dissoluzione dei progetti di vita – appare risucchiato in questo meccanismo distruttivo. Esse non si confrontano – o anche affrontano – come è giusto che sia, in ordine all’innovazione, come ancora avvenne alla fine degli anni Sessanta, ma in ordine all’autoconservazione, se non alla pura sopravvivenza sul piano dei bisogni materiali. Anche da questo lato sembra mancare quello sguardo lungo che consente di fare sacrifici a favore di coloro che verranno senza travolgere i mondi vitali dei loro padri. Se non si acquista questa consapevolezza – relativa al rapporto tra presente e storia, ma anche a quello tra politica e vita – l’Occidente perderà  in casa propria la partita che finora non ha perso nel confronti delle minacce esterne.

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