I conflitti nelle nostre regioni non si vincono con la forza militare

Loading

La risposta più facile era altrettanto generica: “loro” erano invidiosi della ricchezza, delle opportunità , della democrazia e di tutto ciò che ha l’America. In questa parte di mondo nel quale vivo – qui in Pakistan e nell’adiacente Afghanistan, da dove sono stati orchestrati gli attentati dell’11 settembre – coloro che esecravano l’America erano di fatto molto identificabili, e così pure le loro motivazioni. Erano un gruppuscolo di estremisti islamici che sosteneva Al Qaeda: un più grande gruppo di studenti che frequentavano le madrasse, che erano andate moltiplicandosi assai rapidamente sin dagli anni Ottanta, e giovani militanti che avevano ricevuto pieni poteri negli anni trascorsi ad aiutare i servizi militari d’intelligence del Pakistan nella guerra contro l’India in Kashmir. Erano un’esigua minoranza. Ai loro occhi l’America era una potenza imperiale, oppressiva, pagana, proprio come l’Unione Sovietica che avevano sconfitto in Afghanistan.
Adesso che gli Stati Uniti si accingono a entrare nel loro undicesimo anno consecutivo di guerra, la più lunga che abbiano mai combattuto, l’ondata di antiamericanismo è in forte espansione sia in Afghanistan sia in Pakistan, perfino tra coloro che un tempo erano soliti ammirare gli Stati Uniti: il risentimento popolare è motivato dal fatto che i piani americani volti a portare pace e sviluppo in Afghanistan sono falliti, che i massacri continuano, e che per motivare i loro insuccessi gli americani hanno ormai esportato la guerra in Pakistan, rievocando ciò che già  fecero negli anni Sessanta quando la guerra del Vietnam si allargò al Laos e alla Cambogia. Adesso, quindi, abbiamo iniziato noi a porci la domanda dell’11 settembre, ribaltandola: «Perché gli americani ci odiano così tanto?».
Gli americani non dovrebbero essere particolarmente sorpresi da ciò. Il fallimento più evidente dell’America nelle due invasioni – Iraq e Afghanistan – e nell’operazione di salvezza dello stato in Pakistan nelle quali gli americani si sono imbarcati nell’ultimo decennio, è la loro inadeguatezza a contribuire alla ricostruzione degli stati e delle nazioni dove sono andati in guerra. Nation building, ricostruire una nazione, significa infatti aiutare i paesi a sviluppare una profonda coesione nazionale, come l’Iraq stenta ancora a fare e come il Pakistan non è mai riuscito a fare sin dalla sua creazione. Questo risultato lo si ottiene non con il ricorso alla forza bruta, ma facendo crescere e prosperare l’economia, la società  civile, l’istruzione e le competenze.
Invece, malgrado tutti i miliardi di dollari spesi per questa strategia, l’agenda pubblica americana è andata progressivamente restringendosi, e la gestione politica vera e propria è stata lasciata nelle mani dell’esercito degli Stati Uniti e della Cia, per i quali l’antinsurrezione è più che altro uno strumento militare. In Afghanistan i raid notturni e le uccisioni mirate da parte degli uomini delle Forze speciali americane, gli attacchi da parte della Cia con i droni hanno sostituito i bombardieri B-52 del periodo immediatamente successivo all’11 settembre, diventando gli strumenti preferiti per logorare i Taliban. Gli obiettivi oggi sono colpiti con maggiore precisione, ma il costo in termini di vittime civili è ancora troppo alto e insostenibile per la popolazione locale.
Gli Stati Uniti hanno invaso sia l’Afghanistan sia il Pakistan senza neppure un piano in mente su come avrebbero poi dovuto amministrare e governare questi due paesi. La corruzione dilaga e gli Stati Uniti hanno una buona parte di responsabilità  in questo, avendo concesso contratti e appalti di enorme importanza alla persone sbagliate, dimenticando il senso di responsabilità  e la trasparenza, preferendo arricchire un pugno di persone invece che costruire un’economia. Tutti questi errori, tutti questi fallimenti – signori della guerra, corruzione, vittime tra i civili – hanno contribuito ad alimentare una nuova e animosa vena di antiamericanismo. Dalla morte, avvenuta l’anno scorso, di Richard C. Holbrooke non c’è più stata una strategia politica americana per il Pakistan o per l’Afghanistan. Dopo dieci anni, dovrebbe essere chiaro ormai che le guerre in questa regione non possono essere vinte esclusivamente con la forza militare, e che non si dovrebbe lasciare la politica ai generali.
(Traduzione di Anna Bissanti)


Related Articles

I robot killer dell’impero

Loading

L’ARTE DELLA GUERRA
 Minacciosi rapaci high-tech volteggiano giorno e notte su Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen, Somalia, Libia e altri paesi.

L’«ordine internazionale» del G7 è quello Nato

Loading

Le dichiarazioni dei Grandi al G7 ricalcano quelle del Summit Nato di Bruxelles

Cento morti a Tripoli, esplode deposito di greggio

Loading

La Libia è fuori con­trollo. Una forte esplo­sione ha distrutto ieri il più grande depo­sito di greggio di Tri­poli, che ospita 6,6 milioni di litri di car­bu­rante. Allarme disastro ambientale

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment