I cittadini insieme a noi scienziati fermino l’«assassinio di Stato»
Nel Convegno appena concluso a Venezia sul «Futuro della Scienza», è stato ampiamente dimostrato che il cervello si rigenera e si riplasma e dunque la persona che è stata uccisa pochi giorni fa, non è la stessa che ha progettato ed effettuato un crimine anni prima, ammesso e non concesso che l’abbia effettivamente perpetrato. Le neuroscienze dimostrano inequivocabilmente l’assurdità della pena di morte, uno strumento barbaro nato in civiltà primitive che avevano conoscenze dell’uomo e del Pianeta infinitamente più limitate e condizioni di vita infinitamente più arretrate. Erano mondi che si reggevano sulla violenza e in cui il valore della singola vita umana era quasi nullo. Possiamo arrivare a capire — senza condividere — che nei Paesi dove ancora oggi sono sistematicamente calpestati i fondamentali diritti umani, possa ancora esistere la pena di morte. Ma è difficile comprendere come lo stesso avvenga negli Usa, che si pongono come faro del progresso e ago della bilancia degli equilibri mondiali. È molto difficile giustificare come la Terra del Futuro, a cui il mondo guarda per comprendere il domani, possa ancora credere in un metodo di controllo della criminalità così primitivo. Oggi, con il bagaglio che abbiamo di conoscenze sul cervello e sulla mente umana, uccidere un assassino risulta un modo per legittimare il principio della vendetta e per legalizzare la cultura della violenza, creando una spirale negativa nella società . Infatti, malgrado dal 1976 (anno in cui la pena di morte è stata reintrodotta negli Usa) siano stati giustiziati 1.043 cittadini, nessun calo di criminalità è stato registrato, anzi: gli omicidi sono 5 volte più frequenti negli Stati Uniti che in Italia.
Inoltre è sempre più ampia fra gli uomini di scienza la schiera dei sostenitori dell’ipotesi ambientale dell’aggressività , in base alla quale la criminalità ha origine appunto nell’ambiente in cui la persona nasce e cresce e dunque soprattutto in modelli educativi sbagliati, o in abusi durante l’infanzia. Se è vero che l’ambiente violento può generare comportamenti violenti, allora è vero anche il contrario: un ambiente non violento può generare comportamenti non violenti. La giustizia ha quindi il dovere di punire e rieducare, ma non ha in nessun modo il diritto di uccidere. Inoltre, cosa ancora più iniqua, il numero di condanne a morte è sproporzionato nei confronti di persone povere o appartenenti a minoranze etniche o religiose e non solo in Arabia Saudita, Iran e Sudan, ma anche negli Stati Uniti. L’uccisione di Davis tragicamente lo conferma. In questi giorni gli scienziati e tutti coloro che credono nel valore della vita e lottano quotidianamente per difenderla sono sconsolati, ma va ricordato che il mondo si sta avvicinando all’abolizione della pena di morte: secondo Amnesty International, nel 2010 sono saliti a 96 i Paesi che l’hanno abolita per tutti i reati, e solo 23 condanne sono state eseguite nei Paesi che ancora la mantengono.
C’è una speranza. E in un mondo globale e strettamente interconnesso dal punto di vista economico e culturale, è interesse di tutti che la speranza diventi realtà e ogni forma di violenza venga delegittimata. Per questo la campagna contro l’«uccisione di Stato» deve continuare su ogni fronte. Attraverso Science for Peace io voglio lanciare un nuovo appello a tutti i cittadini perché sostengano insieme ai medici e agli uomini di scienza questo obiettivo, aderendo al movimento. Perché tacere significa acconsentire.
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