Guerriglia per le strade di Lampedusa gli abitanti contro i tunisini, 11 feriti

by Sergio Segio | 22 Settembre 2011 6:31

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LAMPEDUSA – Le donne che quest’estate si facevano trovare al molo con un piatto di minestra calda e vestititini per i piccoli migranti ora camminano per strada con le pietre nelle tasche dei grembiuli da cucina. Gli uomini si organizzano in ronde per stanare «quei pezzi di merda criminali». Il sindaco Bernardino De Rubeis, dall’alto dei suoi due metri di stazza, è asserragliato nel suo ufficio guardato a vista da tre agenti e con una mazza da baseball al fianco: «Sono pronto ad usarla, scrivetelo pure», sibila furioso ai cronisti.
Alle otto di sera, sotto la luce delle luminarie montate per la festa della Santa patrona, Lampedusa è un campo di battaglia. I ragazzini raccolgono quasi come trofeo di guerra le grosse pietre rimaste sul selciato, ricordo della fitta sassaiola che, per un paio d’ore, ha trasformato l’isola in un inferno. Lampedusani contro tunisini, disperati contro disperati, e in mezzo la polizia costretta ad un certo punto a dare risposte all’ira incontrollabile della gente del paese tirando fuori i manganelli e respingendo a mazzate quelle centinaia di extracomunitari che, dopo l’incendio che ha semidistrutto il centro di accoglienza di contrada Imbriacola, ieri mattina sono tornati ad impossessarsi delle strade del paese con un corteo al grido “Libertà , libertà “. In 11, a fine mattinata, hanno dovuto ricorrere alle cure dei medici del Poliambulatorio e tra questi anche tre carabinieri e un poliziotto. Ma per un tunisino in stato di semicoma i medici hanno chiesto l’eliambulanza e il ricovero d’urgenza in ospedale a Palermo. Quattro gli immigrati in stato di fermo.
I lavori di abbattimento di quel che resta del centro di accoglienza sono già  cominciati e gli inquirenti hanno già  identificato gli autori dell’incendio ma quello è stato solo l’inizio della guerra. Uomini, donne, ragazzi, persino anziani. A Lampedusa, all’alba della festa della madonna di Porto Salvo, mentre la banda del paese attraverso il centro suonando, la gente si arma come può. E non solo per difendersi dalle eventuali aggressioni o razzie degli immigrati riusciti a sfuggire al controllo delle forze dell’ordine. C’è chi raccoglie le pietre e le prepara vicino agli usci di casa, chi tira fuori mazze e bastoni, qualcuno cammina anche armato di coltello. «Voglio vedere chi ci ferma, qua dobbiamo difenderci con le nostre mani dall’invasione di questi criminali», grida gesticolando un anziano agricoltore. Fa paura ora questa gente di Lampedusa che per tutta l’estate ha raccolto elogi per la generosità  e l’accoglienza agli oltre cinquantamila che sono riusciti a superare il Canale di Sicilia. Alle undici del mattino l’aggressione a parolacce e spintoni a due troupe televisive è solo il prodromo della follia che si scatena neanche mezzora dopo nella zona del porto vecchio presidiata da decine di agenti in tenuta antisommossa che tengono d’occhio circa trecento tunisini in corteo.
La scintilla che scatena la guerra sono tre bombole del gas del ristorante “Delfino blu”, a due passi dalla pompa di benzina. Un gruppo di sei tunisini se ne impossessa e le brandisce come arma minacciando di farle esplodere. Ma quella che esplode è solo la rabbia inarrestabile degli isolani. I più giovani si trasformano in black bloc e la sassaiola parte fittissima con pietre pesanti anche diverse chili. I lampedusani si lanciano al corpo e corpo a mani nude. Gridano parole rabbiose: «Cani criminali, andatevene via, non ne vogliamo più neanche uno dei voi». I giornalisti se la vedono brutta e sono costretti a battere in ritirata. È anche «colpa loro se l’isola è invasa da questa feccia e noi facciamo la fame». Insulti partono anche nei confronti delle forze dell’ordine: «Rammolliti, venduti, attaccateli».
Il sindaco Bernardino De Rubeis dà  ordine di non far uscire bambini e ragazzi da scuola. Pochi minuti e arriva l’ordine di caricare. Lo scontro fisico avviene sulla terrazza nei pressi del porto commerciale. Negozi e locali abbassano le saracinesche, la polizia si lancia all’assalto dei tunisini. Gli extracomunitari si difendono come possono, si coprono il volto con gli zaini, a decine si lanciano giù dalla terrazza per sfuggire alla violenza della carica. Gli isolani sembrano quasi eccitati dal sangue che scorre per strada. Omar, Rasik, Saiful, Luis, si affacciano al davanzale della terrazza, guardano i tre, quattro metri che li separano dal selciato e si lasciano andare. I clamori della “guerra” al porto arrivano fino al centro di Contrada Imbriacola e anche lì parte un altro tentativo di sommossa con il lancio di pietre e suppellettili. Barricati nel distributore di benzina ci sono i sei tunisini che avevano minacciato di far esplodere le bombole del gas. È a loro che mira la folla di lampedusani pronta a linciarli. Poi un furgone della Guardia di finanza riesce a mettere in salvo i sei mentre tutti gli altri vengono ancora una volta fatti rientrare nel centro di accoglienza.
Finita la guerra, comincia la caccia al tunisino. Un uomo ne vede uno accucciato dietro una macchina in fondo a via Roma, si avvicina correndo e lo aggredisce a calci. A sottrarlo alla sua furia arriva un furgone di Lampedusa accoglienza. Antonio Palmeri, gestore di un albergo in centro, è esasperato: «Noi siamo sempre stati in prima fila nell’accoglienza, abbiamo anche le foto con loro, ma questi sono solo criminali e se nessuno ci aiuta siamo costretti a difenderci da soli». Alla base Loran, dove 130 tra donne e bambini sono rimasti al sicuro lontano dagli scontri, vengono portati anche otto disabili, sordomuti e paraplegici. Alle quattro e mezza del pomeriggio, dopo essere finalmente riuscito a parlare con Maroni, il sindaco De Rubeis dà  l’annuncio che la sua gente aspetta: «Il ministro mi ha assicurato che entro 48 ore qui non ce ne sarà  più neanche uno». Ma la gente di Lampedusa alle promesse non è più disposta a credere. Sono in tanti quelli che vanno a dormire con le pietre accanto al letto. Il parroco Stefano Nastasi annulla la processione prevista per la festa di oggi. In chiesa dice: «Si respira un clima di troppo odio per potere celebrare una qualsiasi festa». A sera, all’aeroporto, è un continuo via vai. Partono in 350, a passare la notte stipati nell’unico padiglione agibile del centro, restano poco meno di 600.

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