Fuggiti dalla guerra in Libia, abbandonati al gelo tra le montagne piemontesi

by Sergio Segio | 23 Settembre 2011 7:18

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TORINO. Pracatinat è un limbo d’alta quota, a 1600 metri d’altezza tra pini e larici. Un «limbo giuridico» per 149 uomini, tra i 20 e i 40 anni, che in fuga dalla guerra in Libia sono arrivati, in barcone, prima a Lampedusa e poi dislocati – tra fine maggio e agosto – in Piemonte. Attori involontari della cosiddetta «emergenza profughi», tanto cara ai profeti dell’allarmismo maroniano. Ora, in attesa di una risposta alle domande d’asilo politico, sono ospitati in uno dei due edifici della struttura «Pracatinat» (in Val Chisone, provincia di Torino), società  pubblica che ha laboratori didattici per le scuole e un albergo. Hanno televisione, internet e biancheria pulita, ma si sentono prigionieri del nulla e di un futuro senza contorni e prospettive. Non possono lavorare, né essere retribuiti o assicurati. Hanno un temporaneo, semestrale, permesso di soggiorno in attesa del responso della Commissione territoriale della Prefettura incaricata di valutare le richieste (non solo le loro, ma le altre 1500 dei profughi accolti nelle strutture piemontesi). Il timore è quello di un generale respingimento. Sono mesi che aspettano un cenno, isolati su quelle montagne tanto affascinanti quanto lontane dalla città . «Un ragazzo del Mali – racconta un’educatrice – non ne aveva mai viste così alte. Il primo giorno aveva paura». E presto, qui, arriverà  la neve.
I migranti di Pracatinat hanno alle spalle storie difficili. Nessuno è libico. Arrivano per la maggior parte dall’Africa subsahariana (in prevalenza dalla Nigeria, 62, ma anche da Togo, Ghana, Sudan, Costa D’Avorio, Niger, Burkina Faso) e qualcuno dall’Asia (più di venti i bengalesi), scappatati dai loro paesi di origine, dai conflitti e dalla povertà . Si trovavano in Libia per lavorare e la raccontano come «un paese ricco» da cui sono fuggiti a causa della guerra; molti sono stati messi alla porta dallo stesso regime di Gheddafi, caricati su carrette del mare in balia delle onde. Eni Ola ha 39 anni, è nigeriano, viveva dal 2008 a Bengasi, dove faceva il gommista e l’elettricista, si è fatto il viaggio su un barcone. È salvo. Ora, allarga le braccia: «Sono disposto a fare qualsiasi lavoro». La sua famiglia in Nigeria è stata ammazzata dal capo villaggio. In Italia è solo, ma non ha intenzione di essere un peso morto. «Abbiamo varie professionalità , il governo italiano ci aiuti e ci valorizzi». A Pracatinat ci sono muratori, tecnici, operai, autisti, anche laureati. «Stiamo studiano la possibilità  di fare corsi di formazione-lavoro per dar loro una qualificazione – spiega Lanfranco Abele, direttore della struttura – noi ci occupiamo di seguire le procedure burocratiche e di fornire vitto e alloggio. Poi, ci sono gli educatori della Progest, gli psicologi del Mamre e i volontari dell’associazione Granello di Senape, che organizzano corsi di italiano».
Osas ha 24 anni, anche lui è nigeriano, viveva vicino a Tripoli: «Facevo l’autista di camion». Inizia a parlare di calcio, ma a un certo punto sbuffa: «Vorrei vivere in città , non in questo posto fuori dal mondo. E restare in Italia». Gli fa eco Francis, meccanico di 30 anni: «Voglio i miei documenti e il mio lavoro». Fin dall’arrivo a Lampedusa, la loro vita in Italia è stata difficile. E pure, qui, in Val Chisone, la diffidenza degli abitanti è stato uno dei leitmotiv.
Il 31 dicembre scadrà  la convenzione con gli enti gestori delle strutture d’accoglienza e non è ancora certo se verrà  rinnovata. Successivamente, bisognerà  attendere l’esito della Commissione prefettizia e se ai migranti di Pracatinat verrà  riconosciuto lo status di rifugiato politico. «La domanda – spiega il sito del ministero dell’Interno – viene accolta quando gli atti di persecuzione denunciati costituiscono una minaccia alla vita o alla libertà  della persona». Sul successo delle richieste si accavallano i dubbi: i dinieghi per i nigeriani sono, per esempio, quasi all’ordine del giorno. Si potrà  fare ricorso, ma perché costringerli alla clandestinità  quando invece potrebbero essere parte attiva della società ? A Pracatinat, prima del grande freddo, c’è il rischio che prenda il sopravvento l’apatia. I volontari cercano di evitarlo: «Martedì e sabato – racconta Alice Pacchierotti di Granello di Senape – teniamo corsi di lingua italiana. È importante che l’apprendano in fretta, per il lavoro e la patente. E lancio un appello perché si rivolgano a noi insegnanti di inglese, di cui c’è un’estrema necessità ».

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