Fu «vendetta» di polizia

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«Pubblici ufficiali, privi di precedenti disciplinari, sono portatori di un ben diverso onere di lealtà  e correttezza processuale rispetto ad un imputato “comune” e avrebbero dovuto portare un contributo di verità , ad onta delle manipolazioni ordite dai superiori». È questo uno dei passaggi chiave con cui la Corte d’Appello di Bologna (presidente Daniela Magagnoli) spiega la conferma della pena inflitta in primo grado ai quattro agenti di polizia che il 25 settembre del 2006 a Ferrara uccisero il giovane Federico Aldrovandi. Monica Segatto, Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono colpevoli di eccesso colposo per come hanno agito di fronte a un ragazzo in difficoltà : non aiutandolo, come dovrebbe fare un poliziotto, ma picchiandolo a sangue.

Le motivazioni della Corte, però, sono importanti soprattutto sotto un altro punto di vista. Leggendole si capisce che il caso della morte di Federico non è chiuso. Troppi ancora i “buchi neri”. Che potrebbero portare a un altro finale.
Per la seconda volta – dopo il primo grado – un giudice scrive il film di quella mattina in modo diverso rispetto a quanto sostenuto finora dai poliziotti. Ormai è un dato certo: l’incontro tra Federico e la prima pattuglia, la Alpha 3 su cui viaggiavano Pontani e Pollastri, va spostato di mezz’ora indietro. Il primo scontro tra Federico e i poliziotti avviene alle 5,30, e le grida che sentono gli abitanti di via Ippodromo che chiamano la polizia sono gli “effetti” di quello scontro. Non le urla di un esagitato che parla da solo. Secondo la Corte Bolognese le cose stanno così (in estrema sintesi): Federico in discoteca con gli amici abusa di alcune sostanze stupefacenti che lo mandano in un “bad trip”, dunque, dice la Corte bolognese, è probabile che il ragazzo fosse davvero agitato. In questo, la ricostruzione differisce da quanto stabilito in primo grado: il giudice Francesco Maria Caruso, infatti, aveva creduto alla versione degli amici di Federico, secondo cui il ragazzo quando si fece lasciare – come d’abitudine – al parchetto di via Ippodromo per raggiungere casa a piedi, stava benissimo. Ma per la Corte bolognese il fatto che Federico fosse sotto effetti psicotropi non assolve i poliziotti.
Al contrario li chiama ancora di più in causa: davanti a un ragazzo in difficoltà , dice il giudice, un poliziotto deve subito cercare di aiutarlo. I quattro imputati hanno fatto l’opposto. Non solo la prima volante ingaggia una colluttazione con Federico, ma poi chiama aiuto (la Corte non crede all’ultima versione degli appellanti, secondo la quale quando chiesero “ausilio” alla centrale intendevano chiamare un’ambulanza) e una volta arrivati i “rinforzi”, cominciano a picchiare davvero duro. In una reazione che la Corte chiama esplicitamente «vendetta» contro «l’affronto» di Federico. Lo picchiano con i manganelli che addirittura si spezzano. Quando sarà  a terra, immobilizzato, gridando «basta», continueranno a picchiarlo. Come muore Federico? La Corte bolognese abbraccia convinta la tesi proposta dal perito Thiene: Federico è morto per la compressione del fascio di His, sul cuore del ragazzo era osservabile un ematoma, causata sia dal fatto di essere schiacciato a terra dai quattro agenti, che dal suo stato «ipossico», dovuto alla lunga colluttazione.
Ma se questi sono gli elementi che inchiodano gli agenti alle loro responsabilità  (hanno comunque annunciato il ricorso in Cassazione), la sentenza di appello specifica che esistono ancora dei buchi nella vicenda, impossibili da colmare per mancanza di testimoni. Perché la pattuglia Alpha 3 si trovava in via Ippodromo, una strada buia, senza uscita, se non c’era stato ancora nessun allarme lanciato dai cittadini? E, soprattutto, come si è svolto l’incontro tra Federico e gli agenti? I poliziotti lo fermano perché lui era esagitato, oppure Federico stava tranquillamente tornando a casa, e in qualche modo viene “disturbato” dai poliziotti? Lo fermano per un controllo, e visto che lui non ha i documenti la “comunicazione” si fa difficile? Insomma, i poliziotti si trovano subito in un quadro di emergenza, come hanno sempre raccontato, oppure contribusicono a crearla? I poliziotti sono gli unici testimoni, e dicono di aver incontrato una persona fuori di sé. Ma visto che hanno mentito su molti aspetti della vicenda, è lecito chiedersi se non abbiano mentito anche su questo punto. E se, per ipotesi, il fermo non fosse avvenuto in un quadro di «pericolo», il capo di imputazione a carico dei poliziotti potrebbe cambiare: non più eccesso colposo, ma omicidio preterintenzionale, D’altronde fu questa la prima ipotesi di reato a carico degli indagati. Sono pensieri che si rincorrono anche nella testa di Patrizia Moretti, la mamma di Federico, che lancia un appello perché chi ha visto parli: «Sono certa che qualcuno sappia qualcosa che ancora non è venuto fuori. Dobbiamo sapere come è andata, dall’inizio alla fine, perché sia fatta veramente giustizia». «Certo, se qualcuno raccontasse che Federico non era in uno stato di agitazione psicomotoria, ma che le cose sono andate diversamente, il capo d’imputazione cambierebbe – spiega l’avvocato di parte civile nel processo di primo grado, Fabio Anselmo – poiché non ci troveremmo più di fronte a un intervento legittimo da parte della polizia». Affinché sia definitivamente fugato ogni dubbio, sarebbe il caso che chi ha visto parli.
«Il caso che il tribunale deve affrontare riguarda la morte di un diciottenne, studente, incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone perbene, padre appartenente a un corpo di vigili urbani, madre impiegata comunale, un fratello più giovane, un nonno affettuoso al quale il ragazzo era molto legato. Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell età . Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione» (Francesco Maria Caruso).


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