FIDARSI DELLE LEGGI E DELLE ISTITUZIONI

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Come l’idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall’estero.
Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l’abitudine di stracciare i patti stipulati con l’una o l’altra categoria di cittadini. Eppure quest’abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti. C’è infatti un principio che in ogni Stato di diritto regola i rapporti fra governanti e governati: il principio dell’affidamento. Non è scritto nero su bianco nei testi normativi, tanto non serve, sarebbe come scrivere che la legge è fatta di parole. Ciò nonostante, la Consulta vi si è riferita in 500 casi, mentre in altre centinaia di decisioni ha usato l’espressione «buona fede», «fiducia», «correttezza» e via elencando. D’altronde pure la Costituzione evoca il concetto di lealtà  (art. 120), non meno che la fedeltà  e l’onore (art. 54). Non è un caso, così come non è affatto fortuita l’assonanza fra leale e legale. Altrimenti — dice Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte — la legalità  sleale diventerebbe una sopraffazione.
Quante volte ce n’è invece toccata l’esperienza? Succede quando le leggi parlano ostrogoto per non farsi capire, per occultare regalie a questa o a quella lobby. Quando si travestono per mostrarsi caste e sante (la legge n. 194 del 1978, quella che ha depenalizzato l’aborto, s’intitola «Norme per la tutela sociale della maternità »). Quando mettono in circolo 35 mila fattispecie di reato — come avviene in Italia — sicché un poverocristo può inciamparvi senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Quando sono retroattive, stabilendo oggi le regole di ieri (così trasformando l’innocenza in una colpa, e degradando i giudici ad altrettanti poliziotti, come osservava Montesquieu). Quando ipocritamente si qualificano leggi d’interpretazione «autentica» (furono appena 6, nei primi quarant’anni del Regno d’Italia; ne sono state approvate 150, nei primi quarant’anni della Repubblica), per conseguire effetti retroattivi senza dichiararlo. Quando frodano i risultati d’un referendum (come sul finanziamento pubblico ai partiti, abrogato nel 1993 dagli italiani, riesumato sotto mentite spoglie da una legge del 1997). O infine quando revocano promesse dettate dalla legislazione preesistente.
Non che la lealtà  alloggi nelle tombe. Le situazioni cambiano, la borsa della spesa non è sempre tintinnante. E c’è inoltre da pensare a quelli che verranno, ai diritti delle generazioni future cui si riferisce la Carta di Nizza del 2000. Ma c’è una condizione, una soltanto, che può farci accettare la revoca degli impegni assunti dallo Stato. Eguaglianza, ecco il suo nome. La legge leale è una legge eguale, che non separa i figli dai figliastri.


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