Fianco a fianco a Ground Zero le due Americhe di Bush e Obama

by Sergio Segio | 12 Settembre 2011 6:25

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NEW YORK — Diversissimi, eppure uniti da un destino comune: salvare l’America dalla minaccia del terrorismo e tirarla fuori dal gorgo di una crisi economica senza precedenti. Due presidenti: uno che fu alle prese fin dall’inizio con la sfiducia degli americani, l’altro, popolarissimo, che ha rapidamente perso il credito del quale godeva. George Bush e Barack Obama per la prima volta fianco a fianco ieri a «Ground Zero». Circondati dai vetri blindati che ingabbiano il palco presidenziale, con alle spalle il doppio muro di cemento armato ancora nudo, alto venti metri, alla base del grattacielo sorto al posto delle Torri Gemelle: orgogliosamente chiamato «Freedom Tower» e poi più prudentemente ribattezzato «One World Trade Center».
Obama doveva essere l’anti-Bush, l’uomo deciso a «raddrizzare» la storia, ridare smalto all’America, farla uscire dalla sindrome della potenza assediata. Il presidente capace di combattere il terrorismo con l’intelligence e non con guerre dal retroterra ideologico. E anche di punire banche e finanzieri responsabili del tracollo del credito, salvati da Bush coi miliardi stanziati negli ultimi giorni della sua presidenza, e di rilanciare l’economia dopo il collasso del 2008: un crollo in buona parte legato alle politiche di credito facile e alla deregulation scriteriata perseguita soprattutto dalle presidenze repubblicane, da Reagan in poi.
La storia ha preso un percorso in parte diverso: nella politica di Obama gli elementi di diversità  non sono mancati — no ai metodi che rasentano la tortura negli interrogatori dei terroristi, progressivo disimpegno dall’Iraq, avvio del ritiro dall’Afghanistan — ma i fattori di continuità  sono stati prevalenti: prima di annunciare una riduzione delle truppe, Obama ha aumentato l’impegno in Afghanistan, ma soprattutto ha rafforzato la strategia antiterrorismo di Bush moltiplicando gli attacchi dei droni della Cia non solo nei Paesi in guerra, ma anche in quelli — dal Pakistan alla Somalia — nei quali sono state individuate cellule di Al Qaeda. In piedi tra Michelle e Bush che teneva per mano la moglie Laura, ieri Obama appariva assorto mentre venivano pronunciati i nomi delle vittime degli attacchi del 2001 e si preparava a salire sul palco per leggere un passo della Bibbia. Forse pregava in silenzio, o forse rifletteva sui paradossi della sua presidenza: un avvocato dei diritti civili, attivista nei quartieri poveri di Chicago trasformato in commander-in-chief che autorizza un numero record di operazioni «coperte» da parte della Cia e centinaia di «raid» aerei anche nel cielo di Paesi formalmente amici degli Usa, ma infestati di terroristi.
In due anni e mezzo Obama ha fatto uccidere più capi di Al Qaeda di quelli eliminati in quasi otto anni da Bush. Mentre anche in campo economico, al di là  di una riforma sanitaria contestatissima dalla destra ma che resta lontana anni luce dai vari modelli di welfare europeo, il presidente democratico ha scelto una sostanziale continuità : nuovi salvataggi bancari, conferma dell’uomo scelto da Bush per guidare la Federal Reserve, al Tesoro un banchiere centrale dai forti legami con Wall Street.
Ieri, la presenza fianco a fianco di Obama e Bush alla cerimonia del decennale dell’11 settembre ha dato un senso potente, inevitabile ma forse anche in parte voluto, di questa continuità : il presidente che ha inseguito per anni Osama Bin Laden e quello che l’ha eliminato. Certo, la continuità  è anche frutto della necessità , nella quale si è trovato Obama, di affrontare i problemi lasciati aperti — o provocati — dal suo predecessore: fosse stato presidente nel 2001, Obama non avrebbe invaso l’Iraq di Saddam, ma una volta arrivato alla Casa Bianca non poteva certo ritirarsi da un giorno all’altro da Bagdad. E gli esperti di antiterrorismo sono abbastanza concordi nel ritenere che i successi recenti nella lotta contro Al Qaeda sono anche il frutto della scelta di questa presidenza di concentrare tutte le sue energie migliori nella distruzione delle centrali dei gruppi eversivi più pericolosi, anziché disperderle in una «guerra globale al terrore» costosissima, non focalizzata, imbevuta di ideologia.
Eppure queste differenze sono state cancellate ieri così come a Shanksville sabato, alla commemorazione delle vittime del volo United 93, il jet che precipitò in un campo della Pennsylvania in seguito alla rivolta dei passeggeri contro i dirottatori. Il discorso pronunciato da Bush, fatto più di calore e solidarietà  umana che di orgoglio politico, ha suscitato un’ovazione da parte dei presenti mentre subito dopo è stato lo stesso vice di Obama, Joe Biden, a dichiarare eterna gratitudine all’ex presidente per come reagì alla tragedia, tenendo il Paese unito. E proprio questa unità , un concetto sul quale lo stesso Bush è tornato più volte in questi giorni, è l’elemento più prezioso di cui oggi Obama ha bisogno. Perché il presidente divenuto popolarissimo promettendo un cambiamento radicale rispetto a una gestione Bush finita nella polvere degli indici di popolarità  più bassi del secolo, oggi ha le mani legate, mentre i sondaggi che lo riguardano sono ormai deprimenti quanto quelli del suo predecessore. E sono legate proprio perché, lungi dal far nascere quello spirito «bipartisan» sul quale aveva tanto puntato, Obama si è trovato a governare un Paese polarizzato come non era mai successo nel dopoguerra, pur in un’ora grave per il destino dell’America. Per questo anche le parole di unità  di un Bush parzialmente riscattato dal suo secondo mandato — quello della correzione delle scelte ideologiche del dopo 11 settembre — possono dare un po’ di sollievo al presidente. Mentre sullo sfondo tornano a rullare i tamburi dei neocon e della destra più dura, con Rudy Giuliani e lo stratega della guerra irachena, Paul Wolfowitz, che già  ricominciano ad azzannare Obama: «Si ritira troppo presto da Iraq e Afghanistan, saremo attaccati di nuovo».

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