Erdogan: «Subito il riconoscimento della Palestina»

by Sergio Segio | 14 Settembre 2011 7:33

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«I nostri fratelli palestinesi dovrebbero poter avere il loro stato – ha detto il premier turco – non è un’opzione, ma un obbligo…è una questione di umanità ». Ankara, ha aggiunto Erdogan, non normalizzerà  le sue relazioni con Israele fino a quando non ci saranno le scuse ufficiali per le nove vittime dell’attacco del 31 maggio 2010 alla nave Mavi Marmara, un risarcimento per i loro familiari e la fine del blocco di Gaza. «La Turchia non riconosce l’embargo di Gaza», ha proseguito, assicurando che il governo turco farà  quanto necessario per garantire la libera navigazione nel Mediterraneo orientale e farà  il modo che sia la Corte internazionale di Giustizia a decidere sul blocco israeliano della Striscia. «Gli stati, così come gli individui, devono pagare il prezzo degli omicidi e degli atti di terrorismo, in modo che possiamo vivere in un mondo più giusto», ha concluso il primo ministro turco, sollecitando i leader politici arabi ad adottare «senza ritardo riforme politiche e sociali che vengano incontro alle richieste di giustizia, sicurezza e democrazia» in una epoca «in cui si scrive la storia».
Le sue parole sono riecheggiate a Tel Aviv e la reazione del governo israeliano è stata immediata. «Israele si riserva il diritto di cambiare lo status dei Territori in Giudea-Samaria (la Cisgiordania, ndr) se i palestinesi decideranno di proclamare uno Stato indipendente in maniera unilaterale», ha avvertito il viceministro israeliano degli esteri Dany Ayalon, un dirigente del partito dell’ultradestra Yisrael Beitenu. Una mossa del genere, ha aggiunto il ministro, significherebbe il ripudio da parte dei palestinesi degli accordi bilaterali con Israele. Tel Aviv perciò si sentirebbe sollevata a sua volta da quegli impegni. Se i palestinesi porteranno avanti la loro iniziativa unilaterale, «Israele non avrebbe più motivo di imporsi dei limiti, anche per quanto concerne l’edilizia», ossia la colonizzazione in Cisgiordania.
Non sono le prime minacce israeliane da quando il presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen ha ufficializzato le intenzioni palestinesi. Diversi esponenti del governo Netanyahu hanno annunciato «ritorsioni», come l’annessione definitiva a Israele di Gerusalemme Est e di quella parte di Cisgiordania che ora è controllata esclusivamente dalle forze armate dello stato ebraico (60% del territorio). Ieri Mohammed Shtayyeh, un dirigente del partito Fatah, ha ribadito che i palestinesi hanno un doppio piano di azione alle Nazioni unite: contemporaneamente verrà  presentata domanda di adesione al Consiglio di Sicurezza, dove però è certo il veto Usa, e all’Assemblea generale. L’approvazione di due terzi dei 193 stati membri sarebbe sufficiente ad accettare la Palestina come «osservatore permanente di stato non membro». L’attesa è forte ma tanti prevedono che sul terreno cambierà  poco o nulla dopo la proclamazione d’indipendenza. Non manca chi vede nei preparativi israeliani «al peggio» e nell’allarme lanciato dal governo Netanyahu, una mossa mediatica volta a raccogliere consenso internazionale contro i piani palestinesi. Sul piano giuridico invece la situazione si complica e non poco per Israele, in particolare per i coloni. Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, la colonizzazione potrebbe essere portata sui banchi della Corte Internazionale di Giustizia dalla Palestina de jure. Il trasferimento di popolazione civile (i coloni) all’interno di un territorio occupato militarmente costituisce un crimine di guerra. E le minacce rivolte da Ayalon confermano l’inquietudine del governo Netanyahu.

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