by Sergio Segio | 12 Settembre 2011 6:56
IL CAIRO — Atterra Erdogan e atterrisce Israele. In un Egitto fumante dell’assedio di venerdì notte all’ambasciata, con gli zabbalin che ancora non hanno spazzato i vetri frantumati sul marciapiede, il premier turco arriva oggi carico di soldi, di ministri e di consigli per i nuovi leader egiziani. Primo suggerimento: mollare definitivamente gl’israeliani. Erdogan parlerà all’università da cui Obama parlò al Medio Oriente. Andrà alla Lega araba, solido e ormai solitario leader musulmano fra le poltrone rovesciate o traballanti dei vari Gheddafi, Mubarak, Ben Ali, Assad. Firmerà investimenti e accordi per dare al nuovo Cairo più commercio, più telefonia, più cultura, più sport. Poi ripartirà per Tunisi e Tripoli, l’unico a fare un simile tour fra le capitali della primavera araba, e pure a quelle nuove democrazie porterà nuove lire e una nuova proposta: la sua leadership mediorientale, la riedizione d’un nasserismo in salsa turca.
Un po’ di Pil, un po’ di Corano, un po’ di democrazia: la ricetta di Erdogan da queste parti affascina. È la stessa che nel 2002 consentì ad Ankara di fare una silenziosa rivoluzione musulmana, in uno Stato che sta (stava?) sotto l’ombrello occidentale.
Tutti i candidati alla presidenza egiziana, lo stesso maresciallo Tantawi succeduto a Mubarak, citano spesso come un modello la transizione turca dei primi anni 80, quando la giunta militare lasciò il posto a libere elezioni e a un benessere economico che garantisse stabilità . Erdogan lo sa, e questo viene a dire: «C’è un crescente isolamento d’Israele nella regione», spiega il suo ministro Davutoglu, e per placare le piazze turboislamiche cosa c’è di meglio che creare un nuovo asse economico Egitto-Turchia, stramaledicendo il nemico sionista? I primi passi sono stati fatti, in queste settimane, col viavai d’ambasciatori degradati, richiamati, fuggiti fra Ankara, Tel Aviv e il Cairo. Anche se il governo egiziano preferisce una linea prudente: a Netanyahu sono arrivate le scuse ufficiali, per l’assalto di venerdì, e bisogna pur sempre fare i conti con Washington.
Mamma lo turco. La tournée araba, propagandata con l’annuncio (smentito) d’una clamorosa visita a Gaza, copre in realtà interessi concreti. «La Turchia ha appena perso due alleati strategici come l’Iran e la Siria — analizza l’ex ambasciatore israeliano Alon Liel, che resse la sede di Ankara — e ha fretta di trovarsene un altro nella regione. All’Egitto può offrire tanti soldi e subito, senza passare per il ricatto economico degli americani. E intanto, se strilla contro Israele, diventa un eroe delle masse arabe: disinnesca i musulmani radicali, che sotto sotto teme, e costruisce un’area d’islamismo politico più soft». Comunque sia, l’obiettivo immediato ed evidente di Erdogan resta l’isolamento diplomatico di Netanyahu, che quest’ultimo comincia a soffrire: ne è la prova un possibile aiuto militare ai ribelli curdi del Pkk, che il governo israeliano ha paventato nei giorni scorsi. O l’altolà che da Gerusalemme è stato lanciato ieri, a proposito dell’intenzione di Ankara di volere «controllare il Mediterraneo orientale, perché siamo lo Stato più grande che vi s’affaccia», e di fornire «scorte navali armate» alle prossime flottiglie di pacifisti dirette su Gaza. «Dei pacifisti, a Erdogan non importa nulla — dice un viceministro israeliano — quel che l’infastidisce, è l’enorme giacimento sottomarino di gas appena scoperto, che Israele e Cipro intendono sfruttare nei prossimi anni. Vuole metterci le mani. O impedire che ce le mettano altri».
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