Eco: “Perché non ho riscritto Il nome della rosa”

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Su Le Monde Pierre Assouline ha scritto «Eco réinvente son Nom de la rose pour les nuls», vale a dire che lo riscrive per i minus habens, per i poveretti. Telerama ha scritto che tutto è nato da una discussione con l’editore americano che aveva chiesto a Eco di adattare il suo stile ai giovani lettori. El Paà­s dice che ha riscritto per la generazione di Internet. Qui l’autore sgombra il campo dagli equivoci.
Per essere una bufala, professore, quella della “riscrittura” è circolata parecchio…
«E che cosa le debbo dire, siamo in estate, i giornali devono pur scrivere qualcosa, anche per non fare sempre pensare i lettori alla crisi economica… Ai giovani lettori il libro deve piacere così com’era e come resta, altrimenti si grattano: come diceva Croce, il primo dovere dei giovani è di diventare vecchi».
Parafrasando Guglielmo da Baskerville, si apprende comunque anche dagli errori e dalle falsità : questo spavento per un possibile “adattamento ai tempi” del Nome della rosa sembra esprimere le preoccupazioni di chi si sente ossessionato dallo “stile Facebook” e dalla civiltà  degli sms…
«Credo che siano quelli che poi scrivono articolesse per dire che i giovani non leggono più – il che è falso. Non leggono più quelli, adulti compresi, che non leggevano neppure prima».
Vengono in mente i suoi medievali che piangevano sulla sventura di un “mondo che incanutisce” in cui “la gioventù non vuole apprendere più nulla…” Però anche il comunicato stampa della casa editrice diceva che lei aveva sentito il bisogno di rivedere il testo “per renderlo più accessibile a nuovi lettori”.
«È un’espressione curiosa che forse voleva suggerire ai librai che una nuova edizione avrebbe attirato l’attenzione di nuovi lettori (criterio commerciale che però vale per qualsiasi libro), ma certamente (almeno per quelli che credono che Omo lavi davvero più bianco) ha stimolato l’interpretazione che io abbia fatto una edizione a uso del Delfino. No, è sempre a uso delle balene. Anche perché, se ben ricordo, il comunicato correttamente diceva “non lo ha riscritto, come hanno fatto altri autori”, e mi pare dicesse anche che il libro contava 550 pagine. Bastava fare come ha fatto Gramellini sulla Stampa, andare a controllare che la precedente edizione ne contava diciotto di meno, per avanzare il sospetto che non si trattasse affatto di una edizione abbreviata per deficienti. Volendo sofisticare si dovrebbe concludere che è allungata (ma penso che la differenza sia dovuta a margini un poco più ampi, e ne sentivo il bisogno). Però la faccenda penosa, almeno in termini di etica giornalistica, è che sulla base di una mezza frase del comunicato stampa sono stati scritti articoli eccitati o sdegnati, senza avere tra le mani questa nuova edizione che, ancora mentre stiamo parlando, non esiste. Ogni articolo nasceva da un articolo precedente e tutti hanno commesso la leggerezza di parlare di un libro che non avevano né letto né avuto tra le mani. Come diceva quel tale, è peggio che un crimine, è un errore. L’unico che, a inferire dal suo articolo, deve aver fatto una telefonata in casa editrice o essersi fatto mostrare le bozze, in modo da capire che non si trattava di riscrittura ma di normale correzione di errori e imprecisioni lessicali, è stato Paolo Di Stefano sul Corriere. Al giorno d’oggi un giornalista che risale alle fonti è da Pulitzer».
Ma come sarà  presentata questa nuova edizione?
«Ci sarà  scritto nel colophon (quella pagina in caratteri piccoli dove c’è il copyright) “edizione riveduta e corretta”, come accade per molti libri quando dopo tanti anni si fa una seconda edizione. Sono intervenuto anzitutto su alcune inesattezze, a eliminare ripetizioni di uno stesso termine a poche pagine di distanza, spesso mi sono preoccupato del ritmo, perché basta rimuovere un aggettivo o togliere un inciso per rendere più aereo un intero periodo. Ho fatto come un dentista quando, una volta messa una protesi, il paziente sente in bocca come un masso, e lui con un lievissimo passaggio di trapano fa sì che i denti s’incastrino alla perfezione. Forse l’unica variazione di sostanza è nella descrizione della faccia del bibliotecario, perché volevo togliere un fastidioso riferimento neogotico. Cosa di poche righe».
C’erano errori da correggere?
«Pochi, ma c’erano. Da trent’anni continuavo a vergognarmi del fatto che avevo trovato menzionata su un erbario dell’epoca la cicerbita (che è una specie di cicoria) e l’avevo intesa come cucurbita, facendola diventare una zucca – mentre la zucca ci è pervenuta dalle Americhe. E così dicasi con una menzione dei peperoni. Poi parlavo di un violino mentre all’epoca era una viella, e cioè una specie di viola. In un altro punto Adso dice che ha fatto qualcosa in pochi secondi mentre nel Medioevo la misura temporale del secondo non esisteva».
E si è deciso a questa pulizia solo trent’anni dopo?
«Cosa vuole, in questi trent’anni ho scritto altri cinque romanzi e intanto Il nome della rosa filava tra ristampe e traduzioni quasi per conto suo e non riuscivo a tenergli dietro. E poi c’è una faccenda. I miei romanzi successivi riportano correzioni ad ogni ristampa. È perché iniziavano le traduzioni appena il libro era uscito in italiano. Ora non c’è lettore più severo e pignolo di un traduttore, che deve soppesare parola per parola. E i vari traduttori si accorgono che là  c’è una contraddizione, che qui hai scritto nord invece di sud, che una frase si presta a una duplice interpretazione perché magari manca una virgola, e così via. Quando questi rilievi ti arrivano quasi tutti insieme, tu alla prima o seconda ristampa italiana fai le dovute correzioni. Col Nome della Rosa invece le traduzioni sono arrivate lentamente, a distanza di anni l’una dall’altra, mentre le ristampe italiane si succedevano a gran velocità . Inoltre c’è il problema delle ripetizioni, che danno sempre noia all’autore quando si rilegge; oggi basta schiacciare un tasto sul computer e si sa quante volte uno stesso aggettivo è stato ripetuto in un testo di cinquecento e più pagine, mentre ai tempi del Nome della rosa si batteva ancora a macchina, e quindi solo molto più tardi ho avuto a disposizione un testo digitalizzato sul quale fare controlli del genere».
Quindi se sfoglieranno questa edizione i vecchi lettori del Nome della rosa potrebbero addirittura non accorgersi delle differenze?
«A meno che non siano seguaci di Contini e della “critica degli scartafacci”. Chi volesse fare una tesi di laurea confrontando le due edizioni parola per parola, scoprirebbe che i casi più rilevanti riguardano alcune citazioni latine. Il latino era e rimane fondamentale per conferire alla vicenda il suo sapore conventuale e testificare come attendibili e autentici certi rimandi a idee dell’epoca – e d’altra parte volevo e voglio ancora sottoporre il mio lettore a una qualche disciplina penitenziale. Ma mi aveva disturbato che certi lettori mi avessero detto che per certe citazioni si sentivano obbligati a consultare un dizionario di latino. A me non importava e non importa che le citazioni latine siano comprese, specie quando sono semplici titoli di libri, servono a dare l’impressione di lontananza storica. Ma mi ero accorto che in qualche caso se non si capiva la citazione non si comprendeva bene che cosa raccontavo. L’editore tedesco (e dire che i lettori tedeschi sono colti) si era sentito in dovere di mettere in appendice un dizionarietto con la traduzione delle frasi latine, ciò che mi aveva dato molta noia. La mia editrice americana Helen Wolff mi aveva fatto notare che un lettore europeo, anche se non aveva studiato latino a scuola, aveva in testa tante iscrizioni lette sulle facciate di palazzi o di chiese, e aveva udito tante espressioni vuoi filosofiche, vuoi giuridiche, vuoi religiose, per cui non rimaneva terrorizzato da parole (che so) come dominus o legitur. Un lettore americano, invece, avrebbe avuto difficoltà  molto più serie – come se da noi apparisse un romanzo con copiose citazioni in ungherese. Allora (e sto parlando di trent’anni fa) col mio traduttore Bill Weaver ci si era messi ad alleggerire alcuni brani latini, inserendo talora una parafrasi della parte più rilevante – e così facendo avevo in mente gli usi delle mie parti, là  dove, mentre si parla dialetto, si sottolineano le affermazioni più importanti ripetendole in italiano. Ho adottato lo stesso criterio per questa edizione italiana. Faccio un esempio, a un certo punto Guglielmo cita Bacone e dice “E di tutte queste conoscenze una scienza cristiana dovrà  reimpossessarsi, e riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniustis possessoribus.” La nuova edizione dice “E di tutte queste conoscenze una scienza cristiana dovrà  reimpossessarsi, e riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniustis possessoribus, come se non essi ma solo noi avessimo diritto a questi tesori di verità “».
Nessuna riscrittura stile sms per facilitare la lettura del libro a lettori depressi, dunque.
«Non dica così che mi fa male quando rido. Sono per lo più correzioni fatte per far piacere a me, per farmi sentire stilisticamente più a mio agio in certi punti, per sentire il discorso scorrere meglio, per perfezionare un certo ritmo, non per facilitare la lettura ai lettori depressi. Il libro rimane come prima, pronto a deprimere i futuri lettori. Piuttosto, l’esperienza (di rileggermi a distanza di tempo e dare delle spuntatine qua e là , come un barbiere dopo che ti ha già  messo lo specchio dietro la nuca) mi è piaciuta. Ora, a futura memoria, nel tempo libero farò edizioni rivedute e corrette anche degli altri miei romanzi».
Si è letto da qualche parte che gli editori stranieri dovrebbero ritradurre il libro…
«Ci mancherebbe altro. Intanto in certe traduzioni metà  degli inconvenienti che ho eliminato nel testo italiano potrebbero già  essere scomparsi. Per il resto invierò ai vecchi traduttori la nuova versione in cui sono evidenziate in rosso le parole o le righe modificate. In vista della prossima ristampa, in mezza giornata di lavoro potranno rimettere a posto il testo, naturalmente quando lo ritengano rilevante per la loro versione».


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