E il «Club» di Cernobbio ridiventa centrale
C’è qualcosa di più profondo e di sostanziale. Proviamo a sintetizzarlo con il fatto che il centrodestra italiano, pur forte negli anni scorsi di un largo consenso elettorale, non è comunque riuscito a costruire le sue élite e appena la Grande Crisi ha aggredito i debiti sovrani è parso subito evidente che la sua cassetta degli attrezzi fosse inadeguata. Cernobbio, invece, è tradizionalmente abituata a ragionare degli intrecci tra istituzioni comunitarie, mercati e governi nazionali. È il suo pane. E non è certo un caso che i maggiori protagonisti della vita economica del Vecchio Continente siano di casa chez Ambrosetti. Christine Lagarde, da poco alla testa del Fondo Monetario, è una habitué del lago. Come lo sono José Maria Aznar, l’ex cancelliere austriaco Wolfgang Schuessel e un po’ tutti i commissari che hanno fatto la storia della Ue come Joaquin Almunia. Jean-Claude Trichet, l’attuale presidente della Bce, non manca mai e persino un euroscettico matricolato come il ceco Vaclav Klaus è comunque un ospite fisso di Cernobbio. Insomma qualsiasi formula si voglia trovare per evitare che l’Italia un giorno possa lontanamente fare la fine della Grecia, passa attraverso i rapporti personali e le agende telefoniche di quelli di Cernobbio. Sia chiaro, si tratta di personaggi tutti di un pezzo, poco inclini a fare sconti, innamorati delle proprie idee e poi non basta certo conoscere i ministri chiave francesi o tedeschi per risolvere i problemi ma alcune cose in comune ci sono. I riferimenti culturali, le metodologie, il lessico, il riferimento costante alle best practice, la consuetudine a discutere a prescindere dalle appartenenze di schieramento politico. Scusate se è poco.
Ma basta essere ridiventati centrali nella vicenda italiana per possederne veramente le chiavi? Certo che no. Come ieri ha saggiamente sottolineato proprio Schuessel, «la democrazia vive di demos e quindi se l’idea europea vive una crisi di consenso noi quel consenso lo dobbiamo ricostruire». L’ex cancelliere sa bene come il club di Cernobbio, oltre ad avere grandi meriti nell’evoluzione della cultura economica, sia spesso schiavo di procedure e riti. Da sempre nei saloni di Villa d’Este, al riparo dalle orecchie dei giornalisti, si discute animatamente del rapporto tra riforme e consenso. E si ripete all’infinito il paradosso coniato dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, attuale presidente dell’Eurogruppo e anche lui assiduo frequentatore dei seminari Ambrosetti, secondo il quale i governi che sanno fare le riforme spesso non sanno però guadagnarsi la rielezione. Siccome la lingua batte dove il dente duole non è casuale che sia questo il tema ricorrente, perché se c’è una materia che risulta ostica a quelli di Cernobbio è proprio la costruzione del consenso. Troppo spesso ci si dilunga sull’architettura delle istituzioni europee mentre si indaga troppo poco sull’economia reale, la distribuzione del reddito, la ristrutturazione dei sistemi produttivi nazionali, la disoccupazione giovanile, l’orientamento dei sindacati. Anche il legame con l’industria italiana si è un po’ affievolito perché non c’è stato in fondo nessuno che abbia saputo continuare l’opera di Giovanni Agnelli, che amalgamava quelli di Cernobbio con l’imprenditoria rendendo meno elitarie le battaglie per l’estensione della concorrenza e per la creazione dell’euro.
Elencati i pregi e i difetti del Cernobbio-pensiero, resta però la curiosità su come gli europei-italiani del lago di Como saranno capaci di spendere la ritrovata centralità . Una traccia forse la si può trovare nella querelle con i tedeschi aperta da Mario Monti, che se volete può apparire come un inconsueto gesto patriottico. «E pensare — ha detto lo stesso presidente della Bocconi — che sono stato sempre considerato il più tedesco degli economisti italiani. Al tempo lo prendevo come un complimento, anche se non era stato coniato con quest’intento».
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