Dov’è finito il bene comune
E come è possibile risalire la china. La domanda inizia ad imporsi anche a quella ampia parte degli italiani che avevano creduto nel “miracolo” promesso da Berlusconi ed hanno poi continuato a votarlo anche quando le illusioni sono cadute. Perché? Spesso per mancanza di alternative convincenti, certo, ma oggi hanno sotto gli occhi ogni giorno uno sfacelo che non possono rimuovere. Un baratro, non solo economico, che incombe. Ad essi occorre rivolgersi, ad essi occorre parlare in modo credibile avanzando proposte di futuro: solo questo, non la promessa di impossibili e illegittimi salvacondotti al premier, può porre fine al disastroso sopravvivere della maggioranza. Già evocare salvacondotti, del resto, conferma l’idea di un Palazzo impermeabile al diritto e alla coscienza civile. Aumenta discredito e sfiducia nella politica.
In un bel libro sui media Peppino Ortoleva ha esteso a Berlusconi quel che Krakauer scrisse di Napoleone III: “ebbe la strana fortuna di imbattersi in una società che andava in cerca di fantasmagorie”. Oggi le fantasmagorie si sono dissolte e mostrano le voragini che avevano nascosto sin qui. Oggi si può solo diventare adulti, o avviarsi a un declino rovinoso. Quelle voragini non sono di origine recente: ce lo ricorda il convitato di pietra di questi mesi, quell’enormità del debito pubblico che ci rende così fragili. L’eredità più pesante – etica, prima ancora che economica – dei nostri anni ottanta: anni in cui, sotto un’euforia di superficie e dietro il velo di una modernità spesso d’accatto, i pilastri ancora sani della Repubblica venivano aggrediti irrimediabilmente. Quelle derive si fondarono largamente su un tacito “patto di tolleranza” – o di “reciproca convenienza” – fra governanti e governati basato sul prevalere degli interessi degli uni e degli altri (leciti o illeciti che fossero) sul bene comune. Sull’uso dissennato del denaro pubblico per mantenere il consenso e al tempo stesso sull’occupazione dello Stato da parte dei partiti. Qualcosa di simile a quel vecchio “patto di tolleranza” si è delineato, in altre forme, anche nel declino della stagione berlusconiana e ha contribuito al suo prolungarsi. Favorito, certo, dalla assenza di una opposizione adeguata. Favorito, anche, dalla drammatica incapacità di questo Paese di esprimere una “destra” normale.
A questa stagione è possibile porre fine solo costruendo, in alternativa, quella larga coesione nazionale che è indispensabile per evitare il baratro. Ed è necessario prender avvio da una considerazione amarissima: la devastante deriva del premier chiama in causa anche chi non ha saputo contrastare in modo adeguato la sua quasi ventennale “egemonia”. Già l’affermarsi di Berlusconi sulle macerie della “prima repubblica”, del resto, fu favorito dall’illusione della sinistra di poter essere credibile senza mettere in discussione anche se stessa. Un errore gravissimo, eppure il centrosinistra appare oggi immemore di quella lezione. Non capiremmo altrimenti il logorante contrapporsi di differenti alchimie fra i partiti, incapaci di coinvolgere la grande maggioranza del Paese. E non capiremmo perché è stata irresponsabilmente ignorata la grande ventata di speranza e la domanda di radicale cambiamento che erano alla base dei pronunciamenti elettorali di pochissimi mesi fa.
Eppure la profondità della crisi ha reso sempre più urgente dare avvio a una ricostruzione reale delle nostre fondamenta collettive, e non solo di quelle economiche. Ha reso vitale una limpida proposta di alternativa e la presenza di figure realmente autorevoli in grado di garantirla. Una proposta capace di ridare fiducia a un Paese logorato ma non ancora rassegnato. Capace di renderlo nuovamente credibile in Europa, come fu ai tempi del primo governo Prodi. Con poche priorità centrali e al tempo stesso simboliche: una equità sociale accompagnata da tagli drastici e immediati agli sperperi della politica; e incentivi alla crescita che abbiano il loro pilastro in un piano rivolto ai giovani, inevitabilmente penalizzati dall’aumento dell’età pensionabile (e largamente ignorati nel dibattito di questi mesi). Difficile rimettere in moto la fiducia e la speranza collettiva senza partire da qui, e in questo quadro la “questione morale” non è affatto un aspetto secondario. E’ un vero e proprio dramma, o peggio, che il centrosinistra sia giunto a questo snodo decisivo mostrando guasti profondi. E non abbia avuto sin qui la capacità di interrogarsi impietosamente su di essi. Di interrogarsi, anche, su di un apparente paradosso: i guai maggiori del Pd non sono venuti infatti dalla componente legata alla vecchia Dc ma da quella che discende dal Pci, cioè dal partito che pur aveva una reale tradizione di “buon governo” a livello locale. Non c’è proprio nulla da ereditare o da rivendicare, oggi, ma proprio per questo è ancor più urgente costruire dalle fondamenta, rendere visibile e quotidiana una radicale diversità etica: farla diventare un proprio elemento costitutivo e distintivo. Fare in modo che entri davvero a far parte del proprio Dna.
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VOTI A PERDERE
Il più sguaiato dei tribuni e il più felpato degli editorialisti di questi tempi hanno una cosa in comune. Si lamentano che i politici, tutti, non lavorano abbastanza. Bene. Per una volta possono darsi pace, dando uno sguardo ai calendari della camera e del senato. Stanno lavorando. Per la precisione stanno votando a testa bassa un decreto via l’altro, una fiducia e un’altra ancora. Questo è il «lavoro» che è ridotto a fare il parlamento, e dovrà farlo per tutto luglio e anche agosto. Il presidente della Repubblica che con altri governi tuonava contro l’eccesso dei decreti e delle fiducie e che, con i tecnici già in sella, aveva promesso «un vaglio rigoroso», non interviene. Anzi, quando interviene lo fa per rimproverare il parlamento e respingere ogni critica al governo.
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