Donne velate
Per fortuna non è particolarmente impressionabile, come la donna che a Milano ha strappato il velo a due malcapitate. Esprime nondimeno il suo imbarazzo per ciò che le sembra come manifestazione di subalternità femminile. «Non è più sottomessa e meno libera una donna costretta a vestirsi o a comportarsi in modo seducente con un uomo?», si sente rispondere. L’argomentazione è debole non solo perché tra essere piuttosto svestite e essere rivestite di nero da capo a piedi ci sono possibilità intermedie. In realtà un linguaggio seduttivo femminile, che può trovare espressione nell’abbigliamento, fa parte della libertà erotica della donna, non è affatto indice di sottomissione, a meno che non sia soggetto a codici di commercializzazione della sessualità . Reprimerlo, e in modo radicale, ha un significato preciso di limitazione della libertà femminile che fa parte di un’interpretazione della fede islamica. Questo, a dire il vero, non sembra il caso dell’italiana convertita al niqab. Il suo appare come un gioco sottile di nascondimento, oscillante tra la sottrazione allo sguardo dell’altro e l’esercizio di un potere di attrazione indiretto, che trasforma l’incontro con l’uomo in una serie di “coincidenze” da lei controllabili, più che “inimmaginabili”. Il suo ritiro dalla mondanità (i cui motivi profondi sono cose sue private) l’avvicina alle suore di clausura ma nella sua riservatezza, che nel corso dell’intervista rivendica, si fa strada l’evidenza di una qualità esibizionista che la giornalista coglie subito. Una reintepretazione ardita di una tradizione di ritiro in via (apparentemente) di estinzione devia l’emancipazione della donna nel paradosso di un ascetismo erotico in cui l’identificazione rivalitaria con l’uomo, al quale ci si nasconde, la fa, probabilmente, da padrone. Il disagio dell’intervistatrice è comprensibile ma ha due origini distinte. Da una parte deriva dal contatto con una simile con cui non si può identificare sul piano della femminilità , con una donna che la spiazza affermando il proprio desiderio mentre lo nega e viceversa. Dall’altra parte deriva dal fatto che alla parola della sua interlocutrice viene a mancare l’espressività del suo corpo, labbra e volto inclusi. Questo separa la parola dalle sue radici corporee, emotive creando una situazione innaturale che, anche quando non fa scattare paranoie, ha effetti spersonalizzanti sgradevoli. Il velo delle donne islamiche non è fatto per incoraggiare il contatto: esse sono costrette a reprimere il loro corpo espressivo, e quindi anche l’autenticità della loro parola, in pubblico ma è proprio questo che le distingue dalle donne occidentali colte che usano l’islam in modo ingegnoso per addomesticare o neutralizzare il proprio desiderio. Le nostre leggi, che non possono impedire a una donna di girare coperta in tutto il corpo, possono difendere il loro diritto all’emancipazione senza imporglielo.
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