Decrescita, discuterne si può

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 «Il coro di ‘crescita, crescita, crescita’ si fa sempre più assordante, mentre la crisi, tra susseguirsi di giornate nere delle borse e aumento continuo della disoccupazione, si manifesta nelle sue dimensioni sempre più preoccupanti». Una premessa di questo tipo, in apertura dell’invito alla 22ma sessione dei “Colloqui di Dobbiaco 2011”, programmata per l’1-2 ottobre, e intitolata appunto “Benessere senza crescita”, è davvero una bella sorpresa. Forse è perfino un’autorizzazione a sperare in un possibile rinsavimento dell’umanità , oggi inesorabilmente istigata al più insensato consumo fine a se stesso, sedotta all’identificazione con il possesso di merci, in mancanza delle quali con ogni mezzo convinta della propria inesistenza, e per il cui possesso pertanto indotta a tutto, subordinata fino alla cancellazione del prossimo e alla stessa negazione di sé. Forse è, può essere, finalmente, il primo passo per una presa d’atto, individuale e sociale, di una realtà  negli ultimi decenni per mille versi rivelatasi non oltre sostenibile e tuttavia ostinatamente, coralmente, a tutti i livelli, data e praticata come insostituibile, accettata e vissuta come una sorta di fede.

Di questa complessità  della materia il programma dei “Colloqui” mostra opportuna consapevolezza, con riferimenti che, al di là  della clamorosa contraddizione citata in apertura dell’invito, non ignorano la molteplicità  dei problemi, individuali e sociali, che ne discendono: prima tra tutti la crisi ecologica planetaria, la cui crescente gravità  è ormai impossibile negare. Un problema che Dobbiaco dovrebbe essere in grado di affrontare (e la qualità  dei previsti partecipanti può garantirlo) non solo nella drammaticità  degli eventi attuali, ma nelle stesse cause prime del loro prodursi.
La spettacolare evoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha infatti in qualche modo occultato quella che rimane pur sempre la base indispensabile di ogni tipo di produzione, fino a indurre la rimozione di un fatto elementare quanto imprescindibile: che cioè tutto quanto acquistiamo, usiamo, consumiamo, scartiamo (un’auto come un abito, un mobile come un attrezzo agricolo, un aereo come un treno, fino al più prodigioso computer, all’ultimo telefonino milleusi, a un’astronave, a una bomba atomica… ), tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale. Di altro non disponiamo.
Ovvietà ? Banalità ? Certo. Che però tutti tendiamo a rimuovere, mentre tutti, poco o tanto, direttamente o indirettamente, contribuiamo a sostenere produzione e consumo in crescita esponenziale. Tutti cioè, poco o tanto, siamo responsabili di uno sfruttamento della natura che significa squilibrio crescente degli ecosistemi; e che non può a sua volta non essere parte dello squilibrio crescente di cui anche l’umanità , al pari della natura, sempre più soffre.
Ma la crisi di cui maggiormente soffre oggi l’umanità  è certo quella cui l’invito a Dobbiaco si riferisce, parlando di disoccupazione e impoverimento. E forse conviene soffermarsi un attimo a considerare il fenomeno. Perché storicamente disoccupazione e quindi povertà  erano conseguenza di momenti di stasi produttiva; ma ciò non riguarda il momento attuale né gli ultimi decenni, in cui la produzione ha continuato ad aumentare. Ciò che interviene, praticamente dall’ultimo decennio del secolo scorso, è un fenomeno che in precedenza solo per brevi periodi aveva creato problemi, presto superati: mi riferisco alla “disoccupazione tecnologica”, causata dall’entrata in opera di un numero crescente di macchine sempre più efficienti e sempre più capaci di sostituire, spesso vantaggiosamente, l’attività  umana; macchine che “rubavano” lavoro agli operai, a ritmi che la crescita del prodotto, benché forte e continua, non bastava a compensare.
“Creare posti di lavoro”. Fu allora che questa esortazione s’impose come un fortunato slogan tra le fila delle sinistre, e in particolare delle organizzazioni sindacali. E ciò benché non pochi ne avvertissero la sostanziale illogicità : il lavoro non dovrebbe essere la risposta a una data domanda di merci o servizi? Aveva senso auspicare la “creazione” di posti di lavoro, non importa quali, per tenere occupata la gente? Ma questa fu la politica messa in campo per far fronte a una situazione che non conosceva precedenti nella storia dei rapporti industriali, di regola definiti da un rapporto diretto tra domanda di lavoro e prosperità  di aziende e mercati. Regola che ora pareva non esser più tale: le fabbriche prosperavano, rispondevano a dovere i mercati, ma la domanda di lavoro si faceva più scarsa.
Una nuova minaccia incombeva, della quale di fatto le sinistre – limitandosi a risposte-tampone, capaci solo di contenere il danno a carico dei lavoratori – hanno mancato una lettura adeguata, e una politica che avrebbe forse potuto cambiare la storia del mondo. Ciò che stava accadendo era infatti l’avvio dell’applicazione su vasta scala della più gigantesca rivoluzione tecnologica della storia, l’informatica. Un fatto che avrebbe potuto in misura crescente affrancare l’umanità  dal lavoro, non solo materiale ma sempre più anche mentale, consentendo in qualche modo l’avverarsi di quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” a lungo auspicata e perfino “raccontata” dai grandi utopisti, e dallo stesso Marx, poi di recente ripresa da autori quali André Gorz e Claudio Napoleoni.
Ma a prevalere fu la paura della disoccupazione tecnologica. E fu così che di fatto le sinistre regalarono il progresso scientifico e tecnico al capitale. Il quale non poteva che usarlo secondo le proprie logiche e i propri obiettivi. Esplosione consumistica, mondo dominato dalla quantità , società  in cui la banalità  delle lusinghe pubblicitarie s’impone come una sorta di etica perversa. Il tutto a convivere, ma senza farci troppo caso, con l’accelerazione della crisi ecologica planetaria.
“Benessere senza crescita?” Questo è appunto il tema, e in qualche modo l’auspicio, dei prossimi “Colloqui di Dobbiaco”(da considerare e dibattere in una serie di angolazioni e confronti diversi, da esperti della materia quali Wolfgang Sachs, Karl-Ludwig Schibel, Giuseppe De Marzo, per limitarmi a qualche nome). Capita molto di rado che un problema di tale portata, rimosso, e di fatto “vietato”, venga posto con tanta chiarezza, e sia pure con un (d’altronde doveroso) punto interrogativo. Forse non è azzardato sperare in risultati significativi. Auguri.


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