Damasco, assalto all’ambasciatore Usa
Una torma di sostenitori del regime siriano ieri a Damasco ha preso a bersaglio l’ambasciatore americano Robert Ford con lanci di uova, pomodori e sassi. «Ford e i suoi assistenti stavano recandosi a un incontro con un esponente politico siriano», fa sapere la pagina Facebook resa famosa dagli interventi di Ford. Il quale, primo fra i suoi pari a infrangere l’effimera etichetta della diplomazia, da quella tribuna si rivolge ai siriani, simpatizzanti e detrattori. «Sono tornati sani e salvi», è scritto sulla bacheca virtuale: «Una folla ha tentato di assalirli senza riuscirvi, però ha danneggiato i veicoli. Le forze dell’ordine siriane infine hanno aiutato ad assicurare un passaggio fino all’ambasciata».
Ieri mattina Ford aveva appuntamento con un personaggio dell’opposizione, Hassan Abdul Azim, nasseriano di lunga data, già arrestato in aprile all’inizio del Risveglio arabo siriano. Un uomo a prima vista moderato, incline al dialogo con il regime, convinto che la soluzione dei “problemi” (così nel lessico siriano) che ora dilaniano il Paese passi attraverso le riforme e una “morbida transizione” verso la democrazia. Per questo Azim era stato eletto a capo della conferenza dell’opposizione – la prima nella storia moderna del Paese – riunitasi in giugno all’hotel Semiramis. E anche per questo il gesto di Ford, la visita all’anziano dissidente, non aveva il sapore di una delle sue molto citate “sfide” al regime: come la visita poco protocollare a Hama, in luglio, nella piazza dei ribelli; o quella in agosto a Jassem, scossa dai tumulti, che gli valse l’accusa di «interferire negli affari interni del Paese». O “l’affronto”, più recente, indirizzato secondo i siriani al presidente Assad definito «evil», malvagio, in un’intervista perché, Ford argomentava, «sotto la sua autorità la gente viene torturata, uccisa, e nessuno finisce in tribunale. Capisco che qualcuno disobbedisca agli ordini, che sia difficile riformare la polizia, però se nessuno viene punito, c’è da pensare che lui lo accetti». Se a questo si aggiungono i moniti dell’America: «Assad ha le ore contate. Il regime è clinicamente morto», si capisce come il litigio verbale si sia fatto rovente.
Malgrado tutto, Ford rimane. Forse non ha torto chi sostiene che dietro le quinte l’Amministrazione Obama coltivi un brandello di speranza di dialogo con il regime, per riformarlo. Intanto il dipartimento di Stato condanna «la campagna di intimidazione». Rivolti più al Senato repubblicano, contrario alla nomina di Ford, ricorda: «L’ambasciatore rischia in prima persona per sostenere le legittime aspirazioni del popolo siriano». E i disegni della diplomazia americana.
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