Dalla Calabria al Darfur «Liberate Francesco»

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 Cosa ci ha spinto fin quassù, tra i fichi d’india e le montagne bruciate dal sole e dall’uomo che circondano Reggio Calabria? Una domanda facile facile: provare a capire il perché del silenzio attorno al caso di Francesco Azzarà , il volontario di Emergency rapito in Darfur il 14 agosto scorso.

Forse che, a fronte di ben 16 italiani nelle mani di bande di predoni di vario genere nel mondo, l’assuefazione ha preso il sopravvento sulla capacità  di reagire? Forse che in un Paese ipnotizzato dalla propaganda televisiva il silenzio mediatico riesce a imporre il silenziatore alle piazze? Forse che la crisi del movimento pacifista, di cui un’organizzazione come Emergency è stata parte costituente, ha frenato la sacrosanta mobilitazione? O forse infine è tutta colpa del «generale agosto», quando rimane a riposo ogni velleità  militante? Non sarebbe la prima volta che accade: ricordiamo tutti il silenzio calato attorno al sequestro del povero Enzo Baldoni, il freelance finito nelle mani di una banda di estremisti islamici il 21 agosto del 2004 e ucciso pochi giorni dopo.
Il paese d’origine di Francesco Azzarà  si chiama Motta San Giovanni, e per arrivarci bisogna arrampicarsi per una strada tortuosa che sale da Reggio Calabria. Il paradosso è che siamo a un passo dall’Aspromonte, terra di rapimenti fino a una decina d’anni fa: 187 in totale di cui 170 terminati con il rilascio, ricorda Tonino Perna, che del Parco nazionale dell’Aspromonte è stato l’eclettico presidente. Una storia il cui ultimo e ancora una volta paradossale strascico risale ad appena pochissimi giorni fa, con Alessandra Sgarella, nelle mani dei banditi per nove mesi tra il dicembre ’97 e il settembre ’98, che è spirata proprio nel giorno dell’arresto dell’ultimo dei suoi rapitori.
Francesco, che oggi ha 34 anni, era fuori dai tempi dell’università  (Economia aziendale a Pisa), e da buon «cervello in fuga» aveva fatto il suo Erasmus in Spagna, seguito da un lungo periodo ad Amsterdam. Come la gran parte dei migranti di nuova generazione, ha conservato un buon rapporto con la sua terra, dove rientra regolarmente ed è molto conosciuto.
Motta San Giovanni ha seminato minatori in giro per il mondo e ne ha ricevuto in cambio un’etica del lavoro e del rapporto con i migranti che spinge a rifiutare l’oleografia delle sagre del peperoncino e fa polemizzare il consigliere comunale Franco Cenereri con un’amministrazione passata che aveva assegnato l’annuale premio Minatore d’oro all’Arma dei carabinieri e al papa. Insomma, i minatori non sono un prodotto tipico della Calabria, e a ricordarlo ci sono la statua a loro dedicata di fronte al Comune, una scritta in piazza che ricorda come le aziende del Nord venivano a reclutare lavoratori e la lunga teoria di lapidi dei caduti di silicosi. Qui tutti hanno avuto genitori e nonni che sono stati in miniera e sono morti tra i 50 e i 60 anni, e molti di quei «caduti» continuano a far vivere le proprie famiglie, con le pensioni di reversibilità , anche vent’anni dopo la morte.
Francesco qui viene considerato, più che un cervello in fuga, una versione moderna di quegli emigranti che andavano in miniera, dal lavoro diverso ma con lo stesso spirito di questi, finito a prestare servizio come logista al centro pediatrico gestito dall’associazione fondata da Gino Strada a Nyala, in Darfur. Era tornato lì da poco e per caso, a sostituire una persona che era andata via improvvisamente. Sarebbe invece dovuto partire, il 15 settembre, per un’altra missione, sempre con Emergency, in Afghanistan. Più pericolosa, forse, e preoccupante per la famiglia che, ci spiega Enzo, un suo cognato, temeva molto questo trasferimento. Invece la sorte ha deciso diversamente, e il 14 agosto Francesco è stato sequestrato mentre andava all’aeroporto di Khartoum a prendere un collega. Probabilmente si è trattato di un sequestro non politico ma legato a motivi economici o per ottenere qualche contropartita dal governo, con tempi di soluzione che potrebbero anche essere lunghi, a giudicare dalle premesse, e tuttora con alcuni punti in sospeso. Ad esempio: qualcuno ha «venduto» Francesco ai suoi rapitori? La polizia sudanese ha fermato il suo autista e un accompagnatore ma in molti invece li difendono.
La casa di Francesco è in una frazione di Motta San Giovanni, a metà  strada tra il paese in cima e Reggio Calabria. Il panorama è dei migliori: ci si affaccia sullo Ionio da un lato e sullo Stretto dall’altro, di fronte l’Etna con un pennacchio fumante. La famiglia ha deciso dal primo momento di non rilasciare interviste, di mantenere una linea «morbida» e attendere. Ecco una prima spiegazione del silenzio calato attorno al caso. In paese si sono adeguati, ma la prima reazione era stata una grande manifestazione, il 18 agosto scorso, quattro giorni dopo il rapimento. Una fiaccolata che raccontano come epocale per il paese: «Pensa che quando la testa del corteo era in piazza, la coda era ancora al Municipio», racconta un amico di Francesco con un fervore giornalistico che fa sorridere.
Ora, sulla facciata della casa comunale è appeso uno striscione «Francesco libero» con una sua foto, la stessa che hanno fornito a Emergency per farla esporre su tutti gli edifici pubblici. E’ accaduto ieri a Palazzo Vecchio a Firenze e a Palazzo Campanella, sede della Regione Calabria che finora non si era particolarmente scaldata per il conterraneo sequestrato. Il sindaco Paolo Laganà , eletto con una lista civica, non pare del tutto convinto che la Farnesina si stia muovendo benissimo.
Qui arriviamo alla seconda ragione del silenzio: la richiesta arrivata dal ministero degli Esteri, all’indomani della manifestazione del 18, a tenere un basso profilo per favorire una più veloce soluzione della trattativa. Ma, a distanza di quasi venti giorni, pare ovvio che tale fiducia si sia un po’ incrinata, al punto che la stessa Emergency ha lanciato due giorni fa un appello alla mobilitazione, appello al quale si è unita l’Associazione nazionale dei comuni italiani e da ieri anche il Pd. Pian piano, il silenzio si sta sgretolando.


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